Pope Francis has arrived in South Sudan. Ecumenical Peace Pilgrimage begins.

Il quarto giorno del Viaggio Apostolico in Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan, è iniziato con la Santa Messa celebrata in forma privata all’interno della Nunziatura Apostolica. Oggi, 03 febbraio 2023, Papa Francesco ha lasciato Kinshasa per raggiungere Giuba, in Sud Sudan. Inizia così, il Pellegrinaggio Ecumenico di Pace a cui accennò Bergoglio già nel 2017 durante una visita alla All Saints Church di Roma.

Il Pontefice ha riferito ai suoi collaboratori di essere deluso dal fatto che la stampa, sopratutto internazionale, non ha dato molto spazio al suo Viaggio Apostolico. Anche Antonio Spadaro, il quale viene usato dal Papa molto spesso per garantirgli i rapporti con la stampa, ha twettato questo sentimento del Papa.

Non lo avesse mai fatto. Immediatamente direttori e giornalisti si sono scagliati contro il gesuita e gli hanno fatto presente di essere tutti impegnati a battere le notizie. Addirittura, ha dovuto pubblicare due tweet in cui ha rettificato. È evidente che questa è la dimostrazione che il Pontificato è completamente a servizio della stampa e i giornali sanno bene che Bergoglio ormai dipende totalmente "dal giudizio" di questi. Per questo motivo, anche al suo entourage, non viene permesso di criticare la casta dei giornalisti. Bergoglio e Spadaro si odiano, ma entrambi si utilizzano a vicenda. Difatti, sono molte le volte in cui Francesco ha mostrato insofferenza verso quest'uomo che è onnipresente. 

L'ultimo incontro in RDC

Prima di lasciare il Paese, il Papa ha voluto incontrare i vescovi. "Sono contento di incontrarvi e vi ringrazio di cuore per la calorosa accoglienza, ha detto loro. Grazie a Mons. Utembi Tapa per il saluto che mi ha rivolto e per avervi dato voce con le sue parole: vi sono grato per come annunciate con coraggio la consolazione del Signore, camminando in mezzo al popolo, condividendone le fatiche e le speranze". 

Francesco evoca la figura di Geremia: "Pensando a voi, Pastori del Popolo santo di Dio, mi è venuta in mente la storia di Geremia, un profeta chiamato a vivere la sua missione in un momento drammatico della storia di Israele, tra ingiustizie, abomini e sofferenze. Egli ha speso la vita per annunciare che Dio non abbandona mai il suo popolo e porta avanti progetti di pace anche nelle situazioni che sembrano perdute e irrecuperabili. Ma questo annuncio consolante di fede, Geremia lo ha vissuto anzitutto nella sua persona, lui per primo ha sperimentato la vicinanza di Dio. Solo così ha potuto portare agli altri una coraggiosa profezia di speranza. Anche il vostro ministero episcopale vive tra queste due dimensioni, di cui vorrei parlarvi, la vicinanza di Dio e la profezia per il popolo".

Ancora una volta, come ha fatto con i presbiteri nella giornata di ieri, Bergoglio richiama alla preghiera: "Per noi, che abbiamo ricevuto la chiamata a essere Pastori del Popolo di Dio, è importante fondarci su questa vicinanza del Signore, “strutturarci nella preghiera”, stando ore davanti a Lui. Solo così si avvicina al Buon Pastore il popolo che ci è affidato e solo così si diventa veramente Pastori, perché noi, senza di Lui, non possiamo fare nulla (cfr Gv15,5). Saremmo imprenditori, “maestri”, ma non dietro la vocazione del Signore. Senza di Lui non possiamo fare nulla. Che non succeda di pensarci autosufficienti".

"E per addentrarci in questo secondo punto, la profezia per il popolo - ha continuato il Papa -guardiamo ancora all’esperienza di Geremia. Dopo aver ricevuto la Parola amorevole e consolante di Dio, egli viene chiamato a essere «profeta delle nazioni» (cfr Ger 1,5), inviato a portare luce nell’oscurità, a testimoniare in un contesto di violenza e corruzione. E Geremia, che divora la Parola del Signore, in quanto è per lui gioia e letizia del cuore (cfr Ger 15,10), confessa che questa stessa Parola semina in lui un’inquietudine insopprimibile e lo porta a raggiungere gli altri perché siano toccati dalla presenza di Dio. «Nel mio cuore – scrive – c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Ger 20,9). Non possiamo trattenere solo per noi la Parola di Dio, non possiamo contenerne la potenza: essa è un fuoco che brucia la nostra apatia e accende in noi il desiderio di illuminare chi è nel buio. La Parola di Dio è un fuoco che brucia dentro e ci spinge a uscire fuori! Ecco la nostra identità episcopale: bruciati dalla Parola di Dio, in uscita verso il Popolo di Dio, con zelo apostolico!"

Il Pontefice, poi si è trasferito in auto all’Aeroporto Internazionale N’djili di Kinshasa per il congedo dalla Repubblica Democratica del Congo.

Pellegrinaggio Ecumenico di Pace: Sud Sudan

Alle ore 14.45 (13.45 nello Stato della Città del Vaticano), Francesco è atterrato a Giuba in Sud Sudan dove è stato accolto dal Presidente della Repubblica del Sud Sudan, S.E. il Sig. Salva Kiir Mayardit.

Il Papa si è poi recato al Palazzo Presidenziale per la visita di cortesia al Presidente della Repubblica compiuta insieme all’Arcivescovo di Canterbury, Sua Grazia Justin Welby, e al Moderatore dell’Assemblea Generale della Chiesa di Scozia, il Pastore Iain Greenshields.

Alle ore 17.45 (16.45 nello Stato della Città del Vaticano) ha avuto luogo l'incontro con le Autorità politiche e religiose, i Rappresentanti della Società Civile e il Corpo Diplomatico presso il giardino del Palazzo Presidenziale. Francesco ha detto: "Abbiamo intrapreso questo pellegrinaggio ecumenico di pace dopo aver ascoltato il grido di un intero popolo che, con grande dignità, piange per la violenza che soffre, per la perenne mancanza di sicurezza, per la povertà che lo colpisce e per i disastri naturali che infieriscono. Anni di guerre e conflitti non sembrano conoscere fine e pure recentemente, persino ieri, si sono verificati aspri scontri, mentre i processi di riconciliazione sembrano paralizzati e le promesse di pace restano incompiute. Questa estenuante sofferenza non sia vana; la pazienza e i sacrifici del popolo sud sudanese, di questa gente giovane, umile e coraggiosa, interpellino tutti e, come semi che nella terra danno vita alla pianta, vedano sbocciare germogli di pace che portino frutto. Fratelli e sorelle, è l’ora della pace!"

Il Pontefice, nella Repubblica Democratica del Congo ha utilizzato l'immagine del diamante quando si è rivolto alle autorità. Oggi, alle autorità del Sud Sudan ha detto: "Vorrei dunque lasciarmi trasportare dall’immagine del grande fiume che attraversa questo Paese recente ma dalla storia antica. Nei secoli gli esploratori si sono inoltrati nel territorio in cui ci troviamo per risalire il Nilo Bianco alla ricerca delle sorgenti del fiume più lungo del mondo. Proprio dalla ricerca delle sorgenti del vivere comune vorrei incominciare il mio percorso con voi. Perché questa terra, che abbonda di tanti beni nel sottosuolo, ma soprattutto nei cuori e nelle menti dei suoi abitanti, oggi ha bisogno di essere nuovamente dissetata da sorgenti fresche e vitali". 

Al termine del discorso del Papa, hanno preso la parola Sua Grazia Justin Welby e il Moderatore dell’Assemblea Generale della Chiesa di Scozia, il Pastore Iain Greenshields. Francesco si è poi recato nella Nunziatura Apostolica per cenare in privato.

Il Viaggio Apostolico continuerà domani, 04 febbraio 2023, con l'incontro con i vescovi, i sacerdoti, i consacrati e i seminaristi, al mattino. Poi, il Papa incontrerà i gesuiti del Sud Sudan e nel pomeriggio parteciperà ad un incontro con gli sfollati interni e ad una preghiera ecumenica.

S.I.

Silere non possum

Incontro con i Vescovi presso la sede della Conferenza Episcopale Nazionale del Congo

Cari fratelli Vescovi, buongiorno!

Sono contento di incontrarvi e vi ringrazio di cuore per la calorosa accoglienza. Grazie a Mons. Utembi Tapa per il saluto che mi ha rivolto e per avervi dato voce con le sue parole: vi sono grato per come annunciate con coraggio la consolazione del Signore, camminando in mezzo al popolo, condividendone le fatiche e le speranze.

È stato bello per me trascorrere questi giorni nella vostra terra, che con la sua grande foresta rappresenta il “cuore verde” dell’Africa, un polmone per il mondo intero. L’importanza di questo patrimonio ecologico ci ricorda che siamo chiamati a custodire la bellezza del creato e a difenderla dalle ferite causate dall’egoismo rapace. Ma questa immensa distesa verde che è la vostra foresta è anche un’immagine che parla alla nostra vita cristiana: come Chiesa abbiamo bisogno di respirare l’aria pura del Vangelo, di scacciare l’aria inquinata della mondanità, di custodire il cuore giovane della fede. Così immagino la Chiesa africana e così vedo questa Chiesa congolese: una Chiesa giovane, dinamica, gioiosa, animata dall’anelito missionario, dall’annuncio che Dio ci ama e che Gesù è il Signore. La vostra è una Chiesa presente nella storia concreta di questo popolo, radicata in modo capillare nella realtà, protagonista di carità; una comunità capace di attrarre e contagiare con il suo entusiasmo e perciò, proprio come le vostre foreste, con tanto “ossigeno”: grazie, perché siete un polmone che dà respiro alla Chiesa universale!

È brutto incominciare un paragrafo con la parola “purtroppo”, ma devo farlo! Purtroppo, so bene che la comunità cristiana di questa terra ha anche un’altra fisionomia. Il vostro volto giovane, luminoso e bello è infatti solcato dal dolore e dalla fatica, segnato a volte dalla paura e dallo scoraggiamento. È il volto di una Chiesa che soffre per il suo popolo, è un cuore in cui palpita trepidante la vita della gente con le sue gioie e le sue tribolazioni. È una Chiesa segno visibile del Cristo che, ancora oggi, viene rifiutato, condannato e disprezzato nei tanti crocifissi del mondo, e piange le nostre stesse lacrime. È una Chiesa che, come Gesù, vuole anche asciugare le lacrime del popolo, impegnandosi a prendere su di sé le ferite materiali e spirituali della gente, e facendo scorrere su di essa l’acqua viva e risanante del costato di Cristo.

Con voi, fratelli, vedo Gesù sofferente nella storia di questo popolo, popolo crocifisso popolo oppresso, sconvolto da una violenza che non risparmia, segnato dal dolore innocente, costretto a convivere con le acque torbide della corruzione e dell’ingiustizia che inquinano la società, e a patire in tanti suoi figli la povertà. Ma vedo allo stesso tempo un popolo che non ha perso la speranza, che abbraccia con entusiasmo la fede e guarda ai suoi Pastori, che sa ritornare al Signore e affidarsi alle sue mani, perché la pace a cui anela, soffocata dallo sfruttamento, da egoismi di parte, dai veleni dei conflitti e delle verità manipolate, possa finalmente giungere come un dono dall’alto.

Viene da chiedersi: come esercitare il ministero in questa situazione? Pensando a voi, Pastori del Popolo santo di Dio, mi è venuta in mente la storia di Geremia, un profeta chiamato a vivere la sua missione in un momento drammatico della storia di Israele, tra ingiustizie, abomini e sofferenze. Egli ha speso la vita per annunciare che Dio non abbandona mai il suo popolo e porta avanti progetti di pace anche nelle situazioni che sembrano perdute e irrecuperabili. Ma questo annuncio consolante di fede, Geremia lo ha vissuto anzitutto nella sua persona, lui per primo ha sperimentato la vicinanza di Dio. Solo così ha potuto portare agli altri una coraggiosa profezia di speranzaAnche il vostro ministero episcopale vive tra queste due dimensioni, di cui vorrei parlarvi, la vicinanza di Dio e la profezia per il popolo.

Anzitutto vorrei dirvi: lasciatevi toccare e consolare dalla vicinanza di Dio. Lui è vicino a noi. La prima parola che il Signore rivolge a Geremia è questa: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto» (Ger 1,5). È una dichiarazione d’amore che Dio scolpisce nel cuore di ciascuno di noi, che nessuno può cancellare e che, in mezzo alle tempeste della vita, diventa sorgente di conforto. Per noi, che abbiamo ricevuto la chiamata a essere Pastori del Popolo di Dio, è importante fondarci su questa vicinanza del Signore, “strutturarci nella preghiera”, stando ore davanti a Lui. Solo così si avvicina al Buon Pastore il popolo che ci è affidato e solo così si diventa veramente Pastori, perché noi, senza di Lui, non possiamo fare nulla (cfr Gv 15,5). Saremmo imprenditori, “maestri”, ma non dietro la vocazione del Signore. Senza di Lui non possiamo fare nulla. Che non succeda di pensarci autosufficienti, tanto meno di vedere nell’episcopato la possibilità di scalare posizioni sociali e di esercitare il potere. Quel brutto spirito del “carrierismo”. E soprattutto: che non entri lo spirito della mondanità, che ci fa interpretare il ministero secondo i criteri dei propri utili tornaconti, che rende freddi e distaccati nell’amministrare quanto ci è affidato, che porta a servirci del ruolo anziché servire gli altri, e a non curare più la relazione indispensabile, quella umile e quotidiana della preghiera. Non dimentichiamo che la mondanità è il peggio che può accadere alla Chiesa, è il peggio. A me ha toccato sempre quel finale del libro del cardinale De Lubac sulla Chiesa, le ultime tre, quattro pagine, dove dice così: la mondanità spirituale è il peggio che può accedere, peggio ancora che l’epoca dei Papi mondani e concubinari. È peggio. E la mondanità è sempre in agguato. Stiamo attenti!

Cari fratelli Vescovi, curiamo la vicinanza con il Signore per essere suoi testimoni credibili e portavoce del suo amore presso il popolo. È attraverso di noi che Lui vuole ungerlo con l’olio della consolazione e della speranza! Siete voi la voce con cui Dio vuole dire ai Congolesi: «Tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio» (Dt 7,6). L’annuncio del Vangelo, l’animazione della vita pastorale, la guida del popolo non possono risolversi in principi distanti dalla realtà della vita quotidiana, ma devono toccare le ferite e comunicare la vicinanza divina, perché le persone scoprano la loro dignità di figli di Dio e imparino a camminare a testa alta, senza mai abbassare il capo dinanzi alle umiliazioni e alle oppressioni. Attraverso di voi questo popolo ha la grazia di sentire rivolte a sé parole simili a quelle che il Signore consegnò a Geremia: “Sei un popolo benedetto, prima di formarti nel grembo materno ti ho pensato, conosciuto, amato”. Se coltiviamo la vicinanza con Dio, ci sentiamo spinti verso il popolo e sentiremo sempre compassione per quanti ci sono affidati. Quell’atteggiamento della compassione, che non è un sentimento, è un patire con. Rincuorati e rafforzati dal Signore, diventiamo a nostra volta strumenti di consolazione e di riconciliazione per gli altri, per sanare le piaghe di chi soffre, lenire il dolore di chi piange, risollevare i poveri, liberare le persone da tante forme di schiavitù e di oppressione. La vicinanza a Dio, cioè, rende profeti per il popolo, capaci di seminare la Parola che salva nella storia ferita della propria terra.

E per addentrarci in questo secondo punto, la profezia per il popolo, guardiamo ancora all’esperienza di Geremia. Dopo aver ricevuto la Parola amorevole e consolante di Dio, egli viene chiamato a essere «profeta delle nazioni» (cfr Ger 1,5), inviato a portare luce nell’oscurità, a testimoniare in un contesto di violenza e corruzione. E Geremia, che divora la Parola del Signore, in quanto è per lui gioia e letizia del cuore (cfr Ger 15,10), confessa che questa stessa Parola semina in lui un’inquietudine insopprimibile e lo porta a raggiungere gli altri perché siano toccati dalla presenza di Dio. «Nel mio cuore scrive – c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Ger 20,9). Non possiamo trattenere solo per noi la Parola di Dio, non possiamo contenerne la potenza: essa è un fuoco che brucia la nostra apatia e accende in noi il desiderio di illuminare chi è nel buio. La Parola di Dio è un fuoco che brucia dentro e ci spinge a uscire fuoriEcco la nostra identità episcopale: bruciati dalla Parola di Dio, in uscita verso il Popolo di Dio, con zelo apostolico!

Ma – possiamo chiederci – in che cosa consiste questo annuncio profetico della Parola, questo ardore? Al profeta Geremia il Signore dice: «Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca. Vedi, oggi ti do autorità sopra le nazioni e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare» (Ger 1,9-10). Sono verbi forti: dapprima sradicare e demolire, per poter infine edificare e piantare. Si tratta di collaborare a una storia nuova che Dio desidera costruire in mezzo a un mondo di perversione e di ingiustizia. Anche voi, allora, siete chiamati a continuare a far sentire la vostra voce profetica, perché le coscienze si sentano interpellate e ciascuno possa diventare protagonista e responsabile di un futuro diverso. Bisogna, dunque, sradicare le piante velenose dell’odio e dell’egoismo, del rancore e della violenza; demolire gli altari consacrati al denaro e alla corruzione; edificare una convivenza fondata sulla giustizia, sulla verità e sulla pace; e, infine, piantare semi di rinascita, perché il Congo di domani sia davvero quello che il Signore sogna: una terra benedetta e felice, mai più violentata, oppressa e insanguinata.

Facciamo però attenzione: non si tratta di un’azione politica. La profezia cristiana si incarna in tante azioni politiche e sociali, ma il compito dei Vescovi e dei Pastori in generale non è questo. È quello dell’annuncio della Parola per risvegliare le coscienze, per denunciare il male, per rincuorare coloro che sono affranti e senza speranza. “Consola, consola il mio popolo”: quel motto che torna, torna, è un invito del Signore: consolare il popolo. “Consola, consola il mio popolo”. È un annuncio fatto non solo di parole, ma di vicinanza e testimonianza: vicinanza, anzitutto, ai preti – i preti sono i primi prossimi di un vescovo –, ascolto degli operatori pastorali, incoraggiamento allo spirito sinodale per lavorare insieme. E testimonianza, perché i Pastori devono essere credibili per primi e in tutto, e in particolare nel coltivare la comunione, nella vita morale e nell’amministrazione dei beni. È essenziale, in questo senso, saper costruire armonia, senza ergersi su piedistalli, senza asprezze, ma dando il buon esempio nel sostegno e nel perdono vicendevoli, lavorando insieme, come modelli di fraternità, di pace e di semplicità evangelica. Non accada mai che, mentre il popolo soffre la fame, di voi si possa dire: “quelli non se ne curano e vanno chi al proprio campo, chi ai propri affari” (cfr Mt 22,5). No, gli affari, per favore, lasciamoli fuori dalla vigna del Signore! Un pastore non può essere un affarista, non può! Siamo Pastori e servi del popolo di Dio, non amministratori di cose, non affaristi, pastori! L’amministrazione del vescovo dev’essere quella del pastore: davanti al gregge, in mezzo al gregge, dietro al gregge. Davanti al gregge per indicare la strada; in mezzo al gregge per sentire l’odore del gregge, non perderlo; dietro al gregge per aiutare coloro che vanno più lentamente, e anche per lasciare un po’ il gregge da solo e vedere dove trova dei pascoli. Il pastore deve muoversi in queste tre direzioni.

Cari fratelli Vescovi, ho condiviso con voi quello che sentivo nel cuore: coltivare la vicinanza con il Signore per essere segni profetici della sua compassione per il popolo. Vi prego di non trascurare il dialogo con Dio e di non lasciare che il fuoco della profezia sia spento da calcoli o ambiguità con il potere, e nemmeno dal quieto vivere e dall’abitudinarietà. Dinanzi al popolo che soffre e all’ingiustizia, il Vangelo chiede di alzare la voce. Quando secondo Dio alziamo la voce, rischiamo. Lo ha fatto un vostro fratello, il servo di Dio Mons. Christophe Munzihirwa, pastore coraggioso e voce profetica, che ha custodito il suo popolo offrendo la vita. Il giorno prima di morire lanciò a tutti un messaggio dicendo: «In questi giorni che cosa possiamo ancora fare? Restiamo saldi nella fedeAbbiamo fiducia che Dio non ci abbandonerà e che da qualche parte sorgerà per noi un piccolo bagliore di speranza. Dio non ci abbandonerà se noi ci impegniamo a rispettare la vita dei nostri vicini, a qualsiasi etnia essi appartengano». Il giorno dopo venne ucciso in una piazza della città, ma il suo seme, piantato in questa terra, insieme a quello di tanti altri, porterà frutto. È bene fare memoria, con gratitudine, dei grandi Pastori che hanno segnato la storia del vostro Paese e della vostra Chiesa, di chi vi ha evangelizzato e preceduto nella fede. Fratelli, sono le vostre radici, che vi irrobustiscono nell’ardore evangelico. Penso al bene che ho ricevuto conoscendo il Cardinale Laurent Monsengwo Pasinya.

Carissimi, non abbiate timore di essere profeti di speranza per il popolo, voci concordi della consolazione del Signore, testimoni e annunciatori gioiosi del Vangelo, apostoli di giustizia, samaritani di solidarietà: testimoni di misericordia e di riconciliazione in mezzo a violenze scatenate non solo dallo sfruttamento delle risorse e da conflitti etnici e tribali, ma anche e soprattutto dalla forza oscura del maligno, nemico di Dio e dell’uomo. Però, non scoraggiatevi mai: il Crocifisso è risorto, Gesù vince, anzi ha già vinto il mondo (cfr Gv 16,33) e desidera risplendere in voi, nella vostra opera preziosa, nel vostro fecondo seme di pace! Fratelli, voglio ringraziarvi, per il vostro servizio, per il vostro zelo pastorale, per la vostra testimonianza.

E, giunto ormai al termine di questo viaggio, vorrei esprimere tutta la mia riconoscenza a voi e a quanti qui lo hanno preparato. Avete avuto la pazienza di aspettare un anno, siete bravi! Grazie di questo! Avete dovuto lavorare due volte, perché la prima volta la visita è stata annullata, ma so che siete misericordiosi con il Papa! Grazie davvero! Nel prossimo giugno celebrerete a Lubumbashi il Congresso eucaristico nazionale: Gesù è realmente presente e operante nell’Eucaristia; lì rappacifica e risana, consola e unisce, illumina e trasforma; lì ispira, sostiene e rende efficace il vostro ministero. La presenza di Gesù, Pastore mite e umile di cuore, vincitore del male e della morte, trasformi questo grande Paese e sia sempre la vostra gioia e la vostra speranza! Vi benedico di cuore.

Vorrei aggiungere una sola cosa: ho detto “siate misericordiosi”. La misericordia. Perdonare sempre. Quando un fedele viene a confessarsi viene a chiedere il perdono, viene a chiedere la carezza del Padre. E noi, col dito accusatore: “Quante volte? E come lo hai fatto?…”. No, questo no. Perdonare. Sempre. “Ma non so…, perché il codice mi dice…”. Il codice dobbiamo osservarlo, perché è importante, ma il cuore del pastore va oltre! Rischiate. Per il perdono rischiate. Sempre. Perdonate sempre, nel Sacramento della Riconciliazione. E così seminerete perdono per tutta la società.

Vi benedico di cuore. E, per favore, continuate a pregare per me, perché questo ufficio è un po’ difficile! Ma confido in voi. Grazie.

Discorso alle Autorità del Sud Sudan

Signor Presidente della Repubblica,
Signori Vice-Presidenti,
illustri Membri del Governo e del Corpo diplomatico,
distinte Autorità religiose,
insigni Rappresentanti della società civile e del mondo della cultura,
Signore e Signori!
Sono lieto di essere in questa terra che porto nel cuore. La ringrazio, Signor Presidente, per le parole di accoglienza che mi ha rivolto. Saluto cordialmente ciascuno di voi e, attraverso di voi, tutte le donne e gli uomini che popolano questo giovane e caro Paese. Vengo come pellegrino di riconciliazione, con il sogno di accompagnarvi nel vostro cammino di pace, un cammino tortuoso ma non più rimandabile. Non sono giunto qui da solo, perché nella pace, come nella vita, si cammina insieme. Eccomi dunque a voi con due fratelli, l’Arcivescovo di Canterbury e il Moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia, che ringrazio per quanto ci diranno. Insieme, tendendovi la mano, ci presentiamo a voi e a questo popolo nel nome di Gesù Cristo, Principe della pace.
Abbiamo infatti intrapreso questo pellegrinaggio ecumenico di pace dopo aver ascoltato il grido di un intero popolo che, con grande dignità, piange per la violenza che soffre, per la perenne mancanza di sicurezza, per la povertà che lo colpisce e per i disastri naturali che infieriscono. Anni di guerre e conflitti non sembrano conoscere fine e pure recentemente si sono verificati aspri scontri, mentre i processi di riconciliazione sembrano paralizzati e le promesse di pace restano incompiute. Questa estenuante sofferenza non sia vana; la pazienza e i sacrifici del popolo sud sudanese, di questa gente giovane, umile e coraggiosa, interpellino tutti e, come semi che nella terra danno vita alla pianta, vedano sbocciare germogli di pace che portino frutto.
Frutti e vegetazione qui abbondano, grazie al grande fiume che attraversa il Paese. Quanto l’antico storico Erodoto diceva dell’Egitto, ossia che è un “dono del Nilo”, vale anche per il Sud Sudan. Davvero, come qui si dice, questa è una “terra della grande abbondanza”. Vorrei dunque lasciarmi trasportare dall’immagine del grande fiume che attraversa questo Paese recente ma dalla storia antica. Nei secoli gli esploratori si sono inoltrati nel territorio in cui ci troviamo per risalire il Nilo Bianco alla ricerca delle sorgenti del fiume più lungo del mondo. Proprio dalla ricerca delle sorgenti del vivere comune vorrei incominciare il mio percorso con voi. Perché questa terra, che abbonda di tanti beni nel sottosuolo, ma soprattutto nei cuori e nelle menti dei suoi abitanti, ha bisogno di essere nuovamente dissetata da sorgenti fresche e vitali.
Distinte Autorità,
siete voi queste sorgenti, le sorgenti che irrigano la convivenza comune, i padri e le madri di questo Paese fanciullo. Voi siete chiamati a rigenerare la vita sociale, come fonti limpide di prosperità e di pace, perché di questo hanno bisogno i figli del Sud Sudan: di padri, non di padroni; di passi stabili di sviluppo, non di continue cadute. Gli anni successivi alla nascita del Paese, segnati da un’infanzia ferita, lascino il posto a una crescita pacifica.
Illustri Autorità, i vostri “figli” e la storia stessa vi ricorderanno se avrete fatto del bene a questa popolazione, che vi è stata affidata per servirla. Le generazioni future onoreranno o cancelleranno la memoria dei vostri nomi in base a quanto fate ora perché, come il fiume lascia le sorgenti per avviare il suo corso, così il corso della storia lascerà indietro i nemici della pace e darà lustro a chi opera per la pace: infatti, come insegna la Scrittura, “l’uomo di pace avrà una discendenza” (cfr Sal 37,37).
La violenza, invece, fa regredire il corso della storia. Lo stesso Erodoto ne rilevava gli sconvolgimenti generazionali, notando come in guerra non sono più i figli a seppellire i padri, ma i padri a seppellire i figli (cfr Storie, I,87). Affinché questa terra non si riduca a un cimitero, ma torni a essere un giardino fiorente, vi prego, con tutto il cuore, di accogliere una parola semplice: non mia, ma di Cristo. Egli la pronunciò proprio in un giardino, nel Getsemani, quando, di fronte a un suo discepolo che aveva sfoderato la spada, disse: «Basta!» (Lc 22,51).  
Signor Presidente, Signori Vice- Presidenti, in nome di Dio, del Dio che insieme abbiamo pregato a Roma, del Dio mite e umile di cuore (cfr Mt 11,29) nel quale tanta gente di questo caro Paese crede, è l’ora di dire basta, senza “se” e senza “ma”: basta sangue versato, basta conflitti, basta violenze e accuse reciproche su chi le commette, basta lasciare il popolo assetato di pace. Basta distruzione, è l’ora della costruzione! Si getti alle spalle il tempo della guerra e sorga un tempo di pace!
Torniamo alle sorgenti del fiume, all’acqua che simboleggia la vita. Alle fonti di questo Paese c’è un’altra parola, che designa il corso intrapreso dal popolo sud sudanese il 9 luglio 2011: Repubblica. Ma che cosa vuol dire essere una res publica? Significa riconoscersi come realtà pubblica, affermare, cioè, che lo Stato è di tutti; e dunque che chi, al suo interno, ricopre responsabilità maggiori, presiedendolo e governandolo, non può che porsi al servizio del bene comune. Ecco lo scopo del potere: servire la comunità. La tentazione sempre in agguato è invece di servirsene per i propri interessi. Non basta perciò chiamarsi Repubblica, occorre esserlo, a partire dai beni primari: le abbondanti risorse con cui Dio ha benedetto questa terra non siano riservate a pochi, ma appannaggio di tutti, e ai piani di ripresa economica corrispondano progetti per un’equa distribuzione delle ricchezze.
Fondamentale, per la vita di una Repubblica, è lo sviluppo democratico. Esso tutela la benefica distinzione dei poteri, così che, ad esempio, chi amministra la giustizia possa esercitarla senza condizionamenti da parte di chi legifera o governa. La democrazia presuppone, inoltre, il rispetto dei diritti umani, custoditi dalla legge e dalla sua applicazione, e in particolare la libertà di esprimere le proprie idee. Occorre infatti ricordare che senza giustizia non c’è pace (cfr S. GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la celebrazione della XXXV Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2002), ma anche che senza libertà non c’è giustizia. Va perciò data a ogni cittadina e cittadino la possibilità di disporre del dono unico e irripetibile dell’esistenza con i mezzi adeguati a realizzarlo: come scriveva Papa Giovanni, «ogni essere umano ha il diritto all’esistenza, all’integrità fisica, ai mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita» (S. GIOVANNI XXIII, Lett. enc. Pacem in terris, 6).
Il fiume Nilo, lasciate le sorgenti, dopo aver attraversato alcune zone scoscese che creano cascate e rapide, una volta entrato nella pianura sud sudanese, proprio nei pressi di Giuba diventa navigabile, per poi addentrarsi in zone più paludose. Analogamente, auspico che il tragitto di pace della Repubblica non proceda ad alti e bassi, ma, a partire da questa capitale, diventi percorribile, senza rimanere impaludato nell’inerzia. Amici, è tempo di passare dalle parole ai fatti. È tempo di voltare pagina, è il tempo dell’impegno per una trasformazione urgente e necessaria. Il processo di pace e di riconciliazione domanda un nuovo sussulto. Ci si intenda e si porti avanti l’Accordo di pace, come anche la Road Map! In un mondo segnato da divisioni e conflitti, questo Paese ospita un pellegrinaggio ecumenico di pace, che costituisce una rarità; rappresenti un cambio di passo, l’occasione, per il Sud Sudan, di ricominciare a navigare in acque tranquille, riprendendo il dialogo, senza doppiezze e opportunismi. Sia per tutti un’occasione per rilanciare la speranza: ciascun cittadino possa comprendere che non è più tempo di lasciarsi trasportare dalle acque malsane dell’odio, del tribalismo, del regionalismo e delle differenze etniche; è tempo di navigare insieme verso il futuro!
Il percorso del grande fiume ci aiuta ancora, suggerendoci la modalità. Nel suo prosieguo, presso il lago No si unisce a un altro fiume, dando vita a quello che viene chiamato Nilo Bianco. La limpida chiarezza delle acque scaturisce dunque dall’incontro. Questa è la via: rispettarsi, conoscersi, dialogare. Perché, se dietro ogni violenza ci sono rabbia e rancore, e dietro a ogni rabbia e rancore c’è la memoria non risanata di ferite, umiliazioni e torti, la direzione per uscire da ciò è solo quella dell’incontro: accogliere gli altri come fratelli e dare loro spazio, anche sapendo fare dei passi indietro. Questo atteggiamento, essenziale per i processi di pace, è indispensabile anche per lo sviluppo coeso della società. E per passare dall’inciviltà dello scontro alla civiltà dell’incontro è decisivo il ruolo che possono e vogliono svolgere i giovani. Siano perciò assicurati loro spazi liberi di incontro per ritrovarsi e dibattere; e possano prendere in mano, senza paura, il futuro che a loro appartiene! Vengano coinvolte maggiormente, anche nei processi politici e decisionali, pure le donne, le madri che sanno come si genera e si custodisce la vita. Nei loro riguardi ci sia rispetto, perché chi commette violenza contro una donna la commette contro Dio, che da una donna ha preso la carne.
Cristo, il Verbo incarnato, ci ha insegnato che più ci si fa piccoli, dando spazio agli altri e accogliendo ogni prossimo come fratello, più si diventa grandi agli occhi del Signore. La giovane storia di questo Paese, dilaniato da scontri etnici, ha necessità di ritrovare la mistica dell’incontro, la grazia dell’insieme. C’è bisogno di guardare al di là dei gruppi e delle differenze per camminare come un unico popolo, nel quale, come accade al Nilo, i vari affluenti apportano ricchezze. Fu proprio attraverso il fiume che i primi missionari, più di un secolo fa, approdarono a questi lidi; alla loro presenza si è aggiunta nel tempo quella di tanti operatori umanitari: tutti vorrei ringraziare per la preziosa opera che svolgono. Penso però anche ai missionari che purtroppo trovano la morte mentre seminano la vita. Non dimentichiamoli e non ci si dimentichi di garantire a loro e agli operatori umanitari la necessaria sicurezza, e alle loro opere di bene i necessari sostegni, affinché il fiume del bene continui a scorrere.
Un grande fiume, tuttavia, può a volte esondare e provocare disastri. In questa terra lo hanno purtroppo sperimentato le tante vittime di inondazioni, alle quali esprimo la mia vicinanza, appellandomi perché non siano fatti loro mancare opportuni aiuti. Le calamità naturali raccontano un creato ferito e sconquassato, che da fonte di vita può tramutarsi in minaccia di morte. Occorre prendersene cura, con uno sguardo lungimirante, rivolto alle generazioni future. Penso, in particolare,  alla necessità di combattere la deforestazione causata dall’avidità del guadagno.
Per prevenire le esondazioni di un fiume è necessario mantenerne pulito il letto. Fuor di metafora, la pulizia di cui il corso della vita sociale abbisogna è la lotta alla corruzione. Giri iniqui di denaro, trame nascoste per arricchirsi, affari clientelari, mancanza di trasparenza: ecco il fondale inquinato della società umana, che fa mancare le risorse necessarie a ciò che più serve. Anzitutto a contrastare la povertà, che costituisce il terreno fertile nel quale si radicano odi, divisioni e violenza. L’urgenza di un Paese civile è prendersi cura dei suoi cittadini, in particolare dei più fragili e disagiati. Penso soprattutto ai milioni di sfollati che qui dimorano: quanti hanno dovuto lasciare casa e si trovano relegati ai margini della vita in seguito a scontri e spostamenti forzati!
Affinché le acque di vita non si tramutino in pericoli di morte è fondamentale dotare un fiume di argini adeguati. Vale lo stesso per la convivenza umana. Anzitutto va arginato l’arrivo di armi che, nonostante i divieti, continuano a giungere in tanti Paesi della zona e anche in Sud Sudan: qui c’è bisogno di molte cose, ma non certo di ulteriori strumenti di morte. Altri argini sono imprescindibili per garantire il corso della vita sociale: mi riferisco allo sviluppo di adeguate politiche sanitarie, al bisogno di infrastrutture vitali e, in modo speciale, al ruolo primario dell’alfabetismo e dell’istruzione, unica via perché i figli di questa terra prendano in mano il loro futuro. Essi, come tutti i bambini di questo Continente e del mondo, hanno il diritto di crescere tenendo in mano quaderni e giocattoli, non strumenti di lavoro e armi.
Il Nilo Bianco, infine, lascia il Sud Sudan, attraversa altri Stati, s’incontra con il Nilo Azzurro e giunge al mare: il fiume non conosce confini, ma congiunge territori. Similmente, per raggiungere uno sviluppo adeguato è essenziale, oggi più che mai, coltivare relazioni positive con altri Paesi, a cominciare da quelli circostanti. Penso anche al prezioso contributo della Comunità internazionale nei riguardi di questo Paese: esprimo riconoscenza per l’impegno volto a favorirne la riconciliazione e lo sviluppo. Sono convinto che, per apportare proficui contributi, sia indispensabile la reale comprensione delle dinamiche e dei problemi sociali. Non basta osservarli e denunciarli dall’esterno; occorre coinvolgersi, con pazienza e determinazione e, più in generale, resistere alla tentazione di imporre modelli prestabiliti ma estranei alla realtà locale. Come disse San Giovanni Paolo II trent’anni fa in Sudan: «devono essere trovate delle soluzioni africane ai problemi africani» (Appello alla Cerimonia di benvenuto, 10 febbraio 1993).
Signor Presidente, distinte Autorità, seguendo il percorso del Nilo ho voluto inoltrarmi nel cammino di questo Paese tanto giovane quanto caro. So che alcune mie espressioni possono essere state franche e dirette, ma vi prego di credere che ciò nasce solo dall’affetto e dalla preoccupazione con cui seguo le vostre vicende, insieme ai fratelli con i quali sono venuto qui, pellegrino di pace.
Desideriamo offrire di cuore la nostra preghiera e il nostro sostegno affinché il Sud Sudan si riconcili e cambi rotta, perché il suo corso vitale non sia più impedito dall’alluvione della violenza, ostacolato dalle paludi della corruzione e vanificato dallo straripamento della povertà.
Il Signore del cielo, che ama questa terra, le doni un tempo nuovo di pace e di prosperità: Dio benedica la Repubblica del Sudan del Sud!