In its reflection on the liturgical question, Silere non possum offers the text of the discussion between Dom Pateau and Andrea Grillo.

“Quando i monaci vivono il Vangelo in modo radicale, quando coloro che sono dediti alla vita integralmente contemplativa coltivano in profondità l’unione sponsale con Cristo, il monachesimo può costituire per tutte le forme di vita religiosa e di consacrazione una memoria di ciò che è essenziale e ha il primato in ogni vita battesimale: cercare Cristo e nulla anteporre al suo amore. Christo omnino nihil praeponere”. Si rivolgeva con queste parole Benedetto XVI, alla Plenaria della Congregazione (oggi Dicastero) per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica nel 2008.

Il Santo Padre, auspicava: “Possano i monasteri essere sempre più oasi di vita ascetica, dove si avverte il fascino dell’unione sponsale con Cristo e dove la scelta dell’Assoluto di Dio è avvolta da un costante clima di silenzio e di contemplazione”. A queste parole abbiamo pensato quando abbiamo letto le parole che il Rev.mo Padre Abate Dom Pateau ha utilizzato per parlare della dolorosa questione liturgica. Leggendo l’intervista che rilasciò a Famille Chretienne e la disputa che ne è scaturita, si ha la chiara consapevolezza che solo con gli occhi della fede si può affrontare questa ferita. Non la si può difinire altrimenti. Se, invece, si sceglie di farne una battaglia ideologica, allora, si ottengono considerazioni basate su sè stessi e non sull’esperienza pastorale.

Leggendo le risposte che Andrea Grillo rivolge al Padre Abate, sorge spontaneo chiedersi se si tratta della stessa lingua. Dom Pateau parla di una esperienza viva, di una questione pratica, sul campo. Parla di una necessità e guarda al mondo con occhio benevolo. L’esperienza del monastero, ne siamo convinti, è essenziale. Chi, più del monaco può testimoniare al meglio la bellezza della liturgia? Colui che vive, giorno e notte, alla presenza di Dio. Chi, grazie all’esperienza dell’Opus Dei, ci può parlare del Maestro, al meglio? Solo l’incontro con Cristo ci può portare a parlare di Lui. L’Eucarestia, memoriale (non memoria), non può essere motivo di battaglie

Eppure, la polemica sembra piuttosto basata su una idea. Bisogna imbracciare le armi. Chi non la pensa come noi, deve adeguarsi a noi. Si tratta di un problema generazionale, senza dubbio. Il medesimo atteggiamento di chi non vuole ammettere i propri fallimenti. La riflessione che offre Dom Pateau è ossigeno puro. Rispetto, dialogo e arricchimento reciproco. Le risposte, invece, sembrano essere quelle di chi si mette in cattedra e vuole spiegare come devono vivere gli altri. Nell’offrire questi testi alla riflessione comune, vogliamo richiamare quanto abbiamo scritto in questo articolo. Questa è la dimostrazione che la zizzania non viene seminata da chi chiede semplicemente di non essere considerato il “figlio disgraziato”. Infine, vogliamo rassicurare Dom Pateau e tutti i fedeli legati al Vetus Ordo. Andrea Grillo, oltre non essere liturgista, non è il “liturgista del Papa” e non ha avuto alcun ruolo nella stesura di Traditionis Custodes. Nel Dicastero ci sono soggetti che contano molto più di Grillo ed hanno le medesime idee nefaste.

Guardando all’Abbazia di Fontgombault, Le Barroux, Solesmes, ecc… possiamo ritenere che le parole di Benedetto XVI hanno trovato terreno fertile. “Possano i monasteri essere sempre più oasi di vita ascetica, dove si avverte il fascino dell’unione sponsale con Cristo e dove la scelta dell’Assoluto di Dio è avvolta da un costante clima di silenzio e di contemplazione”. A Fontgombault, come ha ricordato l’abate nell’intervista, i sacerdoti giungono anche con il chiaro intento di imparare a celebrare al meglio l’Eucarestia. 

L.M.

Silere non possum

Testo dell’intervista concessa dal Rev.mo Padre Abate Dom Jean Pateau, OSB a Samuel Pruvot 

Il giornalista Samuel Pruvot domanda: Lei comprende la tristezza e lo shock di molti fedeli legati alla Forma Straordinaria? Cosa può dire a tutti coloro che si sentono vittime di una profonda ingiustizia?”

Sì, li capisco e mi unisco a loro. Dopo la pubblicazione del Motu Proprio Traditionis custodes, molte persone si sono rivolte ai monasteri in cerca di una parola di rassicurazione. Devo anche ammettere che la tristezza non colpisce solo i fedeli legati alla Forma Straordinaria. Molti, nella Chiesa, mostrano una vera tristezza e incomprensione di fronte a un testo così duro e severo. Cosa possiamo fare? Il nostro dovere è di chiedere fiducia, fiducia in Dio, fiducia nella Chiesa, fiducia nel Santo Padre.

Come cambia Papa Francesco lo spirito del motu proprio di Benedetto XVI?

Il Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI era un testo di apertura, di riconciliazione, che rispondeva alla legittima sofferenza dei fedeli che non avevano trovato nei loro pastori l’ascolto attento, benevolo e generoso che avevano il diritto di aspettarsi, in particolare sulla scia degli inviti del Santo Padre Giovanni Paolo II. È giusto non dimenticarlo. Con questo testo, Papa Benedetto ha chiesto di rispondere alle aspettative di un gruppo stabile di fedeli. Ha anche ricordato che ogni sacerdote può usare il Messale Romano promulgato da Giovanni XXIII nel 1962, la cosiddetta forma straordinaria del Messale Romano unico. Papa Benedetto ha anche espresso il desiderio di un arricchimento reciproco delle due forme; un desiderio che ha ricevuto poca attenzione, se non addirittura è stato respinto da entrambe le parti, dopo la pubblicazione del documento. Alla luce di questo testo, i pastori hanno fatto molta strada e, nella stragrande maggioranza dei casi, l’apertura dei luoghi di celebrazione nella forma straordinaria è stata fatta con il loro accordo e per il bene di tutti.

In modo positivo, il testo di Papa Francesco sottolinea il ruolo del vescovo come “moderatore, promotore e custode di tutta la vita liturgica della Chiesa particolare a lui affidata”. Li invita, inoltre, a nominare nei luoghi di celebrazione della Forma Straordinaria, sacerdoti che abbiano a cuore “non solo la corretta celebrazione della liturgia, ma anche la cura pastorale e spirituale dei fedeli“, per garantire che “le parrocchie canonicamente erette a beneficio di questi fedeli siano efficaci per la loro crescita spirituale”.
In senso contrario, allo stesso tempo, il Motu Proprio di Papa Francesco allontana i fedeli dalle chiese parrocchiali, rifiuta l’erezione di nuove parrocchie personali e la costituzione di nuovi gruppi. Sarà necessario costruire chiese speciali per la celebrazione della Forma Straordinaria? Come può un vescovo rispondere alla crescente domanda dei fedeli? Questo è un dato di fatto, soprattutto dall’inizio della pandemia. Il testo del Papa suggerisce che bisogna fare tutto il possibile per far sì che la modalità di celebrazione nella Forma Straordinaria scompaia al più presto. Questo preoccupa giustamente i fedeli legati a questo modulo.

Capisce l’ “angoscia” del Papa dopo aver ricevuto il sondaggio sull’uso della Forma Straordinaria in tutte le diocesi del mondo, angoscia che sarebbe legata al rifiuto – da parte di alcuni – del Concilio?

Lo stato di angoscia e di sofferenza di Papa Francesco è stato condiviso da molti vescovi, sacerdoti e fedeli che sono legati sia alla Forma Ordinaria che a quella Straordinaria e lo sono da molto tempo. Angoscia per il fatto che il sacramento dell’Eucaristia, il sacramento dell’Amore per eccellenza, sta diventando il sacramento della divisione, sia tra le due forme che all’interno dell’una o dell’altra. Angoscia per il rifiuto da parte di alcuni fedeli della riforma liturgica o del Concilio Vaticano II. Angoscia per il rifiuto di alcuni sacerdoti di concelebrare con il proprio vescovo, soprattutto per la Messa crismale. Angoscia per il rifiuto di alcuni fedeli di ricevere la comunione durante una Messa nella forma ordinaria. Angoscia anche per il disprezzo espresso da molti liturgisti per la Forma Straordinaria o per coloro che la celebrano. La Chiesa non può essere orgogliosa di questo. La responsabilità è ampiamente condivisa da chi non vuole ascoltare la chiamata dei fedeli, da chi viene meno al proprio dovere di insegnare al proprio gregge e da chi si arroga il diritto di dire e fare qualsiasi cosa senza aprire il cuore alle legittime richieste dei propri pastori. L’unità del corpo ecclesiale è stata ferita fin dai primi giorni della riforma liturgica. Le legittime e diverse sensibilità liturgiche non sono state sufficientemente ascoltate e sono state sfruttate “per creare lacune, rafforzare le differenze e incoraggiare i disaccordi che danneggiano la Chiesa, bloccano il suo cammino e la espongono al pericolo della divisione”.
Questa osservazione è vera, ma non richiede una risposta indiscriminata. I fedeli vicini alla Fraternità San Pio X parlano di “vera Chiesa” e “vera Messa”. Non è così in altri luoghi dove si celebra la Forma Straordinaria. Se il Motu Proprio invita i vescovi al discernimento, e questa è una fortuna, molti non si ritrovano nei rimproveri del Santo Padre e li ritengono ingiustificati. Dobbiamo capirli.

 In che modo possiamo interpretare la necessità di una corrispondenza (rigorosa) tra la “lex orandi” della Chiesa e la forma ordinaria della liturgia?

Questa discutibile proposta non è affatto tradizionale. La lettera allegata al Motu Proprio riconosce che “per quattro secoli questo Missale Romanum promulgato da san Pio V è stato così la principale espressione della lex orandi del Rito Romano, svolgendo una funzione di unificazione nella Chiesa”. “Principale” non significa unica. La Chiesa è ricca nella sua unità, ma anche nella sua legittima diversità. Il Concilio di Trento ha autorizzato liturgie che hanno più di 200 anni… La Forma Straordinaria ha più di 400 anni! Papa Benedetto ha scritto, nella lettera che accompagna il Summorum Pontificum:

“Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto”

Le forti parole di Benedetto XVI sono ancora valide. Infine, attraverso le due forme, si esprime la stessa fede eucaristica. Questo deve essere riaffermato di fronte ad alcuni che considerano erroneamente la forma ordinaria come una squalifica della dottrina del Concilio di Trento.

Qual è il significato più profondo dell’obbedienza al Papa in questo caso? È un modo di obbedire senza pensare, o è un’adesione con la punta dell’anima, per quanto crocifiggente possa essere?

Per obbedire, bisogna voler ascoltare, sentire, capire. Rifiutare questo testo sarebbe un grave errore, un’ingiustizia nei confronti del Santo Padre. Ognuno deve correggere nel proprio comportamento ciò che deve essere corretto, dicendo a se stesso: “Cosa vuole dirci Dio attraverso questo testo?” In questo modo si ripristinerà la fiducia, senza la quale nulla sarà possibile. L’obbedienza deve essere anche intelligente, semplice e prudente. È fin troppo chiaro, in questo ambito dove le passioni sono più forti, che l’obbedienza cieca potrebbe danneggiare il vero bene della Chiesa. È legittimo, e il Santo Padre ci invita a farlo anche altrove, che nella Chiesa ci siano luoghi in cui le parole possano essere dette, luoghi in cui possano essere espresse con vera libertà. La celebrazione liturgica non può essere esclusa da questo.

San Benedetto dice ai suoi monaci: “Cercate la pace e perseguitela”. Soprattutto, questo documento, anche se suscita reazioni legittime per la sua durezza, non deve toglierci la pace del cuore. In ultima istanza, questa pace deriva dall’unica cosa che conta davvero, la nostra amicizia con Gesù, e niente e nessuno, nessun documento, nessuna autorità, può togliercela, tranne noi stessi.

La Francia ha vissuto una lunga guerra liturgica. Come fare per non ricominciarne? 

Purtroppo, credo che la guerra liturgica non sia mai cessata. Due schieramenti si osservano a vicenda e segnano il punteggio. Così, il 25 marzo 2020, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha pubblicato due decreti, due documenti autorizzati da Papa Francesco, rispondendo al desiderio di Papa Benedetto di arricchire la Forma Straordinaria con nuovi santi e nuovi prefazi.

Quattro giorni dopo, è stata pubblicata una Lettera aperta sullo “stato di eccezione liturgica” da parte di Andrea Grillo, docente di teologia sacramentaria all’Università Sant’Anselmo di Roma, che chiede l’abbandono dello “stato di eccezione liturgica” dovuto al Motu Proprio di Papa Benedetto, il ritiro immediato dei due decreti, il ripristino di tutte le competenze dei vescovi diocesani e della Congregazione per il Culto Divino in materia liturgica… Proprio quello che il Motu Proprio di Papa Francesco concede oggi. Questo è inquietante. No, la guerra liturgica non è cessata e coloro che sono impegnati in essa considereranno l’ultimo Motu Proprio una vittoria o una sconfitta, a seconda del loro schieramento. Alla fine, ci sarà solo una sconfitta… quella della Chiesa. Dobbiamo uscire da questa lotta che esaurisce la Chiesa, i sacerdoti e i fedeli e che va a scapito dell’evangelizzazione, l’opera a cui tutti sono chiamati. La vera pace liturgica si otterrà attraverso l’esercizio di una vera paternità da parte dei vescovi nei confronti delle legittime richieste di tutti i fedeli, e attraverso la piena fedeltà dei fedeli nei confronti dei loro pastori. Gli echi ricevuti dai gesti e dalle parole dei vescovi, i segni di sollecitudine pastorale provenienti da ogni parte del mondo, dopo la pubblicazione del Motu Proprio, fanno nascere una vera speranza.

Come interpretare le aspirazioni delle giovani generazioni che passano volentieri da una forma liturgica all’altra? Potranno ancora farlo?

Questa è un’autentica espressione del sensus fidei dei fedeli. La Chiesa sarà in grado di ascoltarlo? La lettera aperta sopra citata [di Andrea Grillo ndr] parlava della Forma Straordinaria come di “un rito chiuso nel passato storico, inerte e cristallizzato, senza vita e vigore”. Le aspirazioni delle giovani generazioni, sacerdoti e laici, sono una sferzante smentita. Alla fine dovremo riconoscerlo. La liturgia non è una scienza di laboratorio. È un atto di umiltà che ci si aspetta dai liturgisti. Che usino la loro scienza per discernere la ragione di questo attaccamento alla Forma Straordinaria, anche da parte di non cristiani o di persone che hanno abbandonato da tempo la pratica, un attaccamento che non era previsto a priori. Essi sentono in questo modo di celebrare una presenza più viva del mistero di Dio, presente e nascosto allo stesso tempo, più degnamente lodato. Riscoprono con gioia una sacralità dimenticata. Come non ricordare le decine di sacerdoti che sono venuti all’abbazia per imparare la Forma Straordinaria e che dicono: “Conoscerla mi aiuta a celebrare meglio la Forma Ordinaria”.

Il movimento liturgico ha cercato la partecipazione attiva di tutti al sacrificio eucaristico. Questo lodevole obiettivo non è forse diventato, perché frainteso, la fine stessa della celebrazione? L’esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis ha ricordato: “È necessario chiarire che questa parola [actuosa participatio] non intende riferirsi a un mero atteggiamento esteriore durante la celebrazione. Infatti, la partecipazione attiva auspicata dal Concilio deve essere intesa in termini più sostanziali, a partire da una maggiore consapevolezza del mistero che si celebra e del suo rapporto con la vita quotidiana”. Cosa fare allora? Mantenere le due forme di liturgia in competizione? Lavorare per il loro reciproco arricchimento secondo il desiderio di Papa Benedetto? Riconoscere il beneficio della ricchezza del lezionario della Forma Ordinaria? Perché non autorizzare l’uso dell’offertorio della Forma Straordinaria, che è incomparabilmente più ricco, e l’aggiunta di gesti che ricentrino il celebrante e i fedeli su ciò che si sta compiendo? Perché non rendere possibile il grande silenzio del canone che è come l’iconostasi del rito romano?

Si può dire che coloro che hanno optato per l’obbedienza a Roma (dopo lo scisma) sono stati ingannati rispetto ai fedeli “dissidenti” come quelli vicini alla Fraternità San Pio X?

In effetti, questo è ciò che sentono molti, fedeli, fraternità, istituti. Una sensazione di tradimento. È una croce per me incontrare questo sentimento nei cuori della Madre Chiesa e da parte dei suoi figli. Oggi, tra i fedeli legati alla Forma Straordinaria, la maggioranza non ha alcun legame con lo scisma e la Fraternità San Pio X. Se Ecclesia Dei mirava alla riconciliazione dopo lo scisma, Summorum Pontificum aveva un sguardo più ampio. Non abbiamo forse spento lo Spirito?

In cosa il legame con la forma straordinaria è ancora fonte di grazia nelle nuove disposizioni in vigore? 

Non credo che le nuove disposizioni cambieranno molto. L’attaccamento alla Forma Straordinaria risponde, ad esempio, al desiderio del cuore inquieto di molti sacerdoti. Se si riconoscono come servitori del gregge loro affidato, sono anche e prima di tutto amici di Dio, e hanno bisogno di incontrarlo, di essere nutriti da Lui attraverso la celebrazione della liturgia. La celebrazione nella Forma Straordinaria è uno dei modi che scelgono. Lavorare per ricentrare la celebrazione sul mistero, conservando le conquiste della riforma, appare quindi come un sostegno alla vita spirituale dei sacerdoti, come un’accoglienza del Sensus fidelium a cui Papa Francesco ci invita così spesso ad essere attenti e, infine, come una sfida per la Chiesa.

Cosa cambierà questa decisione nella vita della Chiesa? 

Se è troppo presto per giudicare oggi, penso che questo testo avrà l’effetto di portare i sacerdoti e i fedeli legati alla Forma Straordinaria del Rito Romano a interrogarsi sul loro legame con la Chiesa diocesana, ad avviare un vero e proprio cammino per approfondire questo legame, per renderlo più concreto, ad esempio concelebrando attorno al vescovo. Spero anche che il dolore dimostrato di fronte a un testo severo ammorbidisca il cuore del Santo Padre di fronte a fedeli talvolta turbolenti, soprattutto nel contesto aggravante della pandemia. Mi aspetto che i liturgisti guardino al rito antico in modo obiettivo e accogliente. Non si può conoscere veramente senza comprendere e amare.
Il Santo Padre sottolinea la necessità di celebrare la liturgia nella Forma Ordinaria secondo il Messale. Si tratta di un valido supporto ai vescovi che da tempo hanno capitolato su questo punto. Sarà ascoltato?
Permettetemi di aggiungere un altro desiderio. Poiché di solito celebro nella Forma Straordinaria, continuerò a celebrare in entrambe le forme, in latino e in francese, con un immenso ringraziamento per la fedeltà di Cristo che mi viene incontro attraverso la diversità della liturgia. Tuttavia, non mi sembra possibile, per il bene dei fedeli e in vista della riduzione del numero dei sacerdoti, che è molto più evidente in proporzione alla celebrazione secondo la Forma Ordinaria, risolversi definitivamente in una scissione, in una tensione nell’unico rito romano tra due forme, tra l’adorazione del Corpo e del Sangue di Cristo realmente presente sull’altare e il servizio dell’assemblea. È tempo che le ideologie di qualsiasi tipo cessino di dettare il tono e non abbiano più l’ultima parola nella celebrazione dei sacramenti. È tempo di costruire ponti. Le comunità monastiche e religiose hanno un ruolo da svolgere in questo senso.
La Chiesa deve accogliere il desiderio dei giovani che dimostrano che la riforma liturgica non è completa, che c’è ancora una strada da percorrere nella pace e per la pace.

Come si può fare? Rifiutando di fermarsi lungo il cammino, evitando lo spirito di rottura e cercando di celebrare sempre meglio in uno spirito cattolico che abbraccia la Chiesa “da Nicea al Vaticano II”.
L’esistenza di due forme del Rito romano non è mai stata prevista dai Padri conciliari, ma richiede questa convergenza, questo arricchimento reciproco voluto da Papa Benedetto per il bene della Chiesa e della sua Liturgia, e che risponde alle parole stesse di Cristo: “Perché tutti siano una cosa sola” (Gv 17,11). Allora tutti potranno fare proprie le parole di Papa Benedetto nell’Abbazia di Heiligenkreuz: ” In questo contesto io vi chiedo: realizzate la sacra liturgia avendo lo sguardo a Dio nella comunione dei santi, della Chiesa vivente di tutti i luoghi e di tutti i tempi, affinché diventi espressione della bellezza e della sublimità del Dio amico degli uomini!”
Nell’Ufficio delle Tenebre dei giorni santi, cantiamo: [Bonum est praestolari cum silentio salutare Domini]“È bello aspettare in silenzio la salvezza di Dio” (Lam 3,26) Tutto è nelle mani di Dio, sovrano padrone della storia e degli eventi. Alla sua ora, che possiamo affrettare con le nostre preghiere e i nostri sacrifici, arriverà la pace liturgica. Nell’attesa, manteniamo il nostro cuore in pace.

Intervista del 19.07.2021 pubblicata su Famille Chrétienne.

Testo della lettera aperta di Andrea Grillo al Rev.mo Padre Abate Dom Jean Pateau, OSB

Caro Padre Abate,

nella intervista pubblicata da “Famille Chrétienne” il 19/7,  ripresa l’altro ieri dal blog messainlatino in traduzione italiana, ho trovato anzitutto uno spirito benedettino di riconciliazione e di pace. Questo mi trova pienamente d’acc0rdo con lei. L’anno scorso, con un gruppo di teologi europei e americani, abbiamo scritto un ebook sul tema della “riconciliazione liturgica”, cosa che anche lei ritiene assolutamente decisivo. Le sue parole sono anche molto chiare nell’indicare il compito di “non rigettare” il testo del nuovo MP di papa Francesco, che abroga “Summorum Pontificum”. Lei è stato coraggioso nel pronunciare questa parola forte, forte anzitutto per i suoi ambienti, e in questo trovo un segno della grande tradizione benedettina che caratterizza non solo la sua Abbazia, ma anche le Abbazie nelle quali ho imparato a conoscere e a riconoscere la forza della liturgia: S. Giustina a Padova, S. Anselmo a Roma, Camaldoli nel Casentino, Dominus tecum a Pra d Mil, insieme alle tante abbazie femminili (Grandate, Fabriano, Tarquinia…).

Siamo d’accordo su due esigenze del tutto centrali: costruire ponti è ormai diventato un imperativo e far cessare le battaglie liturgiche si rivela una priorità inaggirabile, per tutti. Lei cerca di trovare i toni più adeguati per dare del nuovo testo una visione non lacerante, non intollerante, non frontale. Questo è un intento nobile e che le fa onore.

Nello stesso tempo, tuttavia, il suo testo sembra restare del tutto sordo al contenuto del MP “Traditiones Custodes” (=TC), e questo mi sorprende alquanto. Fin dal titolo, che forse lei non ha determinato, ma che comunque appare fedele ai contenuti delle sua parole, viene posta male la relazione tra il testo di Francesco e la costruzione dei ponti: ciò che Francesco chiede, con TC, è di costruire ponti “tra le persone” nell’unico rito comune e ordinario, non “ponti tra due forme del rito romano”. Questo equivoco iniziale, che trova tante conferme lungo tutta la sua articolata intervista, manifesta una sorta di “punto cieco” che cerco di chiarire, in una serie di brevi osservazioni, che le sottopongo volentieri:

a) In linea generale, la sua opzione di “non rigettare il testo di Francesco”, se osservata con attenzione, appare piuttosto singolare. Per il fatto che, nel valutare il testo di TC, lei continuamente lo riempie dei contenuti di SP. Ma TC ha abrogato SP e la logica con cui SP pretendeva di fare pace. Se la intenzione è quella di “fare pace”, occorre dare alle parole il loro vero significato. Lei continua, nel suo discorso, a riferirsi a “due forme dello stesso rito”, alle quali i battezzati “avrebbero diritto”. Ma questa è la visione che SP ha tentato di introdurre in modo non lineare e mediante principi di cui la tradizione non ha mai saputo nulla. Il gioco di parole sul “messale tridentino” – che lei non è il primo a ripetere e che ha avuto il suo inizio in affermazioni del Card. Giuseppe Siri nel 1951 e di M. Lefebvre dopo il Concilio Vaticano II – secondo cui non avrebbe eliminato “altre forme” del rito romano, è una elucubrazione senza fondamento: lei dovrebbe sapere bene che le “altre forme”, con cui Trento si confronta, avevano determinazioni o geografiche o personali del tutto particolari. Né il rito ambrosiano né il rito domenicano sono “riti universali”, ma sono ordines condizionati da dimensioni geografiche o personali che ne delimitano strutturalmente l’impatto. Trento non ha mai neppure lontanamente concepito “due forme” del medesimo rito vigenti nella stessa unità di spazio, di tempo e di persone. Solo SP ha provato ad ipotizzare una contemporanea vigenza di due forme diverse e conflittuali della stesso rito romano. Questo “trucco” – perché di trucco sistematico si tratta – ha portato “battaglia”, non “pace”. Per questo TC ha abrogato SP: perché non è possibile costruire “ponti” tra forme diverse del rito romano, ma solo ponti tra persone diverse che usano tutte la stessa forma comune di rito romano.

b) Sempre all’inizio, e poi molte volte nelle molto sue risposte, lei sottolinea la “durezza” e la “severità” di TC, che si riassume nella percezione che lei così esprime: “ Il testo del Papa suggerisce che si deve fare di tutto perché la modalità di celebrazione nella Forma Straordinaria scompaia al più presto. Questo preoccupa giustamente i fedeli attaccati a questo modulo“. In un certo senso lei sembra valutare questa storia da un angolo privilegiato. Alcuni monasteri benedettini, tra cui il suo, avevano in qualche modo anticipato, in una forma particolare e non senza elementi di rigidità e di ostinazione, la soluzione che nel 2007 si è pensato di trasformare in “legge generale”. Dura e severa è stata la accelerazione voluta nel 2007, che ha creato illusioni, distorsioni di prospettive, miraggi ed incubi. La invenzione – che sconfina nella mistificazione – di una “forma straordinaria” che si affiancava 50 anni dopo alla forma ordinaria elaborata su indicazione del Concilio e la rende “opzionale” è una mossa troppo dura e troppo severa. Di fronte a questa “dura accelerazione della nostalgia”,  TC appare invece come un atto di moderazione e di ripresa organica della vera storia comune. Non è una “pretesa assurda di Francesco” che il VO scompaia: è tutta la tradizione a sapere da sempre – almeno fino alla amnesia istituzionale del 2007 – che una riforma generale del rito romano sostituisce il nuovo rito al rito precedente. E il rito romano si trova nel risultato della riforma. Come è sempre stato, nei secoli dei secoli.

c) Lei ritiene che alcuni liturgisti “disprezzino” la forma straordinaria del rito romano e che l’unica via per la pace sarebbe il mutuo riconoscimento tra le due “forme”: coloro che celebrano il NO dovrebbero riconoscere il VO e quelli che celebrano il VO dovrebbero riconoscere il NO. Anche qui, tuttavia, le cose non possono funzionare così né sul piano teologico, né sul piano spirituale, né sul piano pastorale. Circa i liturgisti posso parlare solo di me e non mi permetto di esprimermi in nome di terzi. Ma per quanto mi riguarda io non nutro alcun disprezzo per il VO: semplicemente non lo conosco e non posso conoscerlo: è il Concilio Vaticano II a volere così. Perché è la forma del rito romano che il Concilio ha voluto riformare e che mi è giunta nell’unica forma che ho sempre celebrato: quella successiva al 1969. Trovo curioso che io, che sono nato nel 1961, possa dire con piena coscienza questa cosa, mentre lei, che è nato ben 5 anni dopo di me, possa celebrare ordinariamente con la forma straordinaria. Certo, so bene che qui parla la sua identità francese, la sua origine nella Vandea, la storia della Chiesa di Francia, che ha recepito la riforma liturgica in modo molto più lento e meno capillare di quanto non sia avvenuto in Italia. In Italia, con tutte i suoi limiti, abbiamo davvero recepito e applicato la riforma. L’accesso al rito romano è avvenuto nella forma nuova che è divenuta presto ordinaria e unica, come è sempre accaduto nella storia della Chiesa. E’ la mia esperienza, fin dall’origine, a parlarmi del rito romano nell’unica forma vigente, da quando ho età di ragione. Non per disprezzo personale, ma per estraneità tradizionale.

d) Lei parla, nello stesso tempo, di “non respingere il testo di Francesco” e di “attaccamento alla forma straordinaria”. La prima è una “norma”, il secondo un “affetto”. Qui credo che vi sia il lato più delicato della questione, che non si può risolvere né con “decreti dal vertice” né come “populismi dal basso”.  Con TC è cambiato il modo di considerare la questione. Non esiste più una “forma straordinaria” del rito romano (cosa che è stata inventata nel 2007 da SP e che non ha alcun riscontro nel passato ecclesiale) , ma un’unica forma del rito (quella cosiddetta “ordinaria”) e alcune concessioni all’ uso del rito “non vigente”, destinate con il tempo a ridursi al nulla. Questa è la fisiologia ecclesiale, non la patologia di Francesco. Così la sfida per fare pace passa dai “ponti tra due forme rituali” ai ponti “tra fedeli che usano l’unica forma comune”. Molte delle cose che lei indica come “irrinunciabili” del VO devono essere scoperte, introdotte o riconosciute nell’Ordo voluto dal Concilio Vaticano II. E non sarebbe un piccolo segno di pace se una Abbazia benedettina come la sua, che ha alimentato non poco la ostilità al Vaticano II, si desse gradualmente alla scoperta dei tesori liturgici del NO e li mettesse in comune, nella esperienza monastica e nella esperienza ecclesiale. E aiutasse la Chiesa intera a vivere la continuità della sostanza del depositum fidei nella nuova formulazione del suo rivestimento.

e) Le parole dei giovani che dicono “la riforma non è completa” sono importanti e del tutto vere. La riforma è appena iniziata. Questo però non giustifica una risposta deludente: o perché li illude di poter stare al di qua della riforma, in un rito artificiale che non ha più fondamento; o perché li delude in una mancanza di stile e nella sciatteria di una routine senza cura e senza viva esperienza. Il lavoro comune, transgenerazionale, sull’unico rito comune è l’orizzonte che papa Francesco ha voluto autorevolmente rimettere al centro della attenzione. Contro la distrazione introdotta nella chiesa dalla teoria della “doppia forma”, che ha illuso e amareggiato tutti. Sul piano strettamente teologico vi è stata, in questi 14 anni, una sorta di “follia collettiva” dalla quale Francesco ci ha risvegliati, con parole di grande chiarezza, in vista di una vera riconciliazione. A questo lavoro di riconciliazione non può contribuire la invenzione di una “concorrenza” tra due forme rituali, di cui la seconda è nata per correggere ed emendare la prima.

Caro P. Abate,

lei dice bene: “E’ tempo di costruire ponti”, rimuovendo le letture ideologiche. Anzitutto quelle che creano artificialmente un regime di “concorrenza sleale” tra forme rituali che non sono nate per questo scopo e che non possono convivere se non eccezionalmente, solo per indulto. Capisco il travaglio di chi si era illuso di poter vivere “universalmente” con questa imbarazzante contraddizione. Ma per consolare i delusi e gli illusi bisogna usare le parole di TC, non quelle di SP: altrimenti la ferita non sarà curata e i ponti saranno solo la denominazione opportunistica con cui continueremo a chiamare e a costruire nuovi muri invalicabili”

Lettera del 29 luglio 2021

Testo della lettera del Rev.mo Padre Abate Dom Jean Pateau, OSB ad Andrea Grillo.

Caro professore,
grazie per aver prestato attenzione all’intervista con Famille Chrétienne e per aver risposto con un testo intitolato: “Costruiamo ponti tra le persone, non tra i riti”.
Infatti, la liturgia è il luogo per eccellenza per costruire ponti: un ponte con Cristo per ritrovare in Lui tutti i membri del popolo di Dio. Lei sottolinea giustamente che è difficile costruire ponti tra persone che partecipano a forme diverse del rito romano e che sarebbe più facile costruire ponti tra persone che usano la stessa forma comune del rito romano. Sono d’accordo con lei.
Giovanni Paolo II ha promulgato il motu proprio Ecclesia Dei il 2 luglio 1988 dopo le ordinazioni presbiterali ad Ecône. Solo le prime due parole del documento sono state mantenute come titolo, il che è un peccato! La terza parola è adflicta [afflitta]. L’omonima Commissione non è nata nello splendore di una Chiesa trionfante, ma piuttosto sulla croce di una divisione tra fratelli, una divisione che dura. Va sottolineato che i primi due numeri di questo testo parlano di tristezza: tristezza della Chiesa che vede alcuni dei suoi figli allontanarsi dalla piena comunione, tristezza “particolarmente sentita dal successore di Pietro, che ha la responsabilità primaria di assicurare l’unità della Chiesa”.
Troviamo questa tristezza in Francesco, che la esprime attraverso la Traditionis Custodes.
Sì, avete capito, la stanchezza e la tristezza sono il mio pane quotidiano quando si tratta della questione liturgica. La mia intenzione in queste righe è di riconciliazione e di pace… e di verità. In questo ci ritroviamo insieme. Come dice lei, per pacificare i cristiani di tutti i tipi, ho cercato di “trovare il tono più appropriato per dare una visione del nuovo testo che non sia divisiva, intollerante o in opposizione frontale”. Va detto che molti ricevono la TC [Traditionis Custodes] come un segno di rottura e non capiscono. Alcuni non si riconoscono nei fedeli descritti e si sentono attaccati. Cosa possiamo dire a questi sacerdoti, a questi fedeli, che per anni hanno lavorato in modo nascosto e non riconosciuto per sanare le ferite, per riportarle nel gregge? Sono scoraggiati, accusati ingiustamente di rifiutare il Concilio Vaticano II, di rifiutare la Messa del 69, di parlare della “Vera Messa”, della “Vera Chiesa”. TC gestisce situazioni molto diverse con la stessa norma, accorpa senza apparentemente riconoscere le grandi differenze dei fedeli che partecipano al Vetus Ordo, ignora soprattutto l’esistenza di fedeli o comunità che non si oppongono a un percorso di riflessione sulla liturgia e che talvolta lo hanno addirittura anticipato. Come Abate, San Benedetto mi chiede di prendermi cura di tutte le pecore che mi sono state affidate, di camminare sulle loro orme… quelle che corrono e quelle che zoppicano. Questa è anche la sollecitudine che Francesco condivide per l’intero gregge, poiché chiede al pastore di essere contemporaneamente davanti, in mezzo e in fondo al gregge.
Sì, siamo d’accordo a lavorare su due esigenze centrali: costruire ponti tra i fedeli e porre fine alle battaglie liturgiche.

Ecco alcuni elementi che condivido con voi:

  • Sul Summorum Pontificum e l’introduzione di due forme nell’unico Rito Romano. Lei rimprovera a Benedetto XVI, l’uso dei termini “forma straordinaria” del rito romano come “qualcosa che è stato inventato nel 2007, che non ha alcun fondamento nel passato ecclesiale”, un “trucco“, una “truffa sistematica“… qualcosa che ha portato “battaglia“, non “pace“, creando illusioni, distorsioni di prospettive, miraggi e incubi… Una sorta di “follia collettiva“.
    Questa osservazione mi sembra davvero eccessiva, perché in molti luoghi è avvenuto un vero e proprio percorso di riconciliazione. I vescovi francesi lo hanno sottolineato in una controversa sintesi dei risultati dell’indagine della Congregazione per la Dottrina della Fede sull’attuazione della SP: “Nella maggior parte delle diocesi, la situazione sembra essersi calmata”. Grazie all’azione perseverante e non priva di meriti di vescovi e sacerdoti, si sono progressivamente creati veri e propri luoghi di pace liturgica e di arricchimento reciproco. Questo ha richiesto e continua a richiedere molta umiltà da parte di tutti… ma è così che la Chiesa cresce.
    Da dove deriva il termine “forma” nel contesto liturgico? È frutto della fretta?
    La formula compare in una lettera inviata dal cardinale Lustiger al cardinale Ratzinger nell’autunno del 2000. Di fronte a una richiesta piuttosto aggressiva di una parrocchia personale, l’arcivescovo di Parigi aveva ricordato al gruppo richiedente – con una copia al cardinale Ratzinger – le iniziative benevole da lui intraprese affinché i fedeli legati “all’una o all’altra forma del rito unico romano” potessero convivere in piena comunione di fede e di carità.
    La parola non poteva non risuonare nel cuore di chi già comprendeva il cammino della Chiesa secondo un’ermeneutica della continuità. Di fronte a chi considerava la “nuova Messa” come il frutto di una rottura, adottata per alcuni o subita per altri, l’affermazione di due forme nello stesso rito ha posto la questione nel grande fiume liturgico che scorre nei secoli. Benedetto XVI ha potuto così scrivere ai vescovi: “Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto”. I cardinali Lustiger e Ratzinger, utilizzando e riprendendo l’idea di due forme in un unico rito romano, non hanno innovato, ma hanno riconosciuto l’oggettiva vicinanza dei due riti (cosa che non avviene, ad esempio, per i riti orientali e nemmeno per il rito romano con il rito ambrosiano…). C’è una filialità e quindi una base per un approccio pacificato alla questione liturgica che potrebbe essere compresa alla luce del percorso di tanti adolescenti che, emancipatisi troppo in fretta, tornano un giorno dal padre per ri-conoscere ciò che forse hanno dimenticato troppo in fretta (cfr. Omelia di Francesco per la Domenica dei Nonni del 25 luglio 2021).

AYUDA SILERE NON POSSUM

Benedetto XVI come cooperatore della verità e, come spesso ha fatto, ha manifestato il suo genio nel riconciliare situazioni materialmente contraddittorie in una luce più alta. Parlare di un unico rito romano invitava alla conoscenza e al riconoscimento reciproco.
Se molti hanno beneficiato materialmente del Summorum Pontificum o lo hanno criticato aspramente, pochi sembrano aver davvero lavorato per attuare al meglio lo spirito del testo.
Ecco cosa ha scritto Benedetto XVI alla fine della sua lettera ai vescovi: “Del resto le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico  potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. La Commissione “Ecclesia Dei” in contatto con i diversi enti dedicati all’ “usus antiquior” studierà le possibilità pratiche. Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso”. E ancora: “Ovviamente per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso”.
Queste righe, con il senno di poi, sono accusatorie. Quando l’anno scorso l’Ecclesia Dei ha autorizzato l’uso di nuovi prefazi e nuovi santi, ho pensato: “Finalmente! Abbiamo dovuto aspettare 13 anni”. Quattro giorni dopo, la vostra petizione, firmata da noti liturgisti francesi e di cui avevo apprezzato alcuni lavori, mi ha addolorato profondamente. Anche nel concreto della vita delle diocesi, delle parrocchie, i contatti non sono sempre avvenuti… Alcuni tornavano da lontano e il passo da fare, tanto da una parte quanto dall’altra, poteva essere difficile.

Il cardinale Ratzinger aveva infatti fissato un obiettivo impegnativo nella sua lettera al professor Barth del 23 giugno 2003: Credo che in futuro la Chiesa romana dovrà tornare ad avere un solo rito: l’esistenza di due riti ufficiali è in pratica difficile da “gestire” per vescovi e sacerdoti. Il Rito Romano del futuro dovrebbe essere un unico rito, celebrato in latino o in lingua popolare, ma interamente fondato sulla tradizione del rito antico; potrebbe incorporare alcuni elementi nuovi, già sperimentati, come nuove feste, alcuni nuovi prefazi nella Messa, un Lezionario ampliato – una scelta più ampia rispetto al passato, ma non troppo ampia – un’Oratio fidelium, cioè una litania di preghiere di intercessione dopo l’Oremus dell’Offertorio, dove un tempo apparteneva”.
In sostanza, Summorum Pontificum è stata l’umile risposta di Benedetto al fatto che la situazione dei fedeli provenienti dal movimento dell’arcivescovo Lefebvre rimaneva precaria nella Chiesa, ma anche l’accoglienza del fatto che fedeli e sacerdoti, provenienti da altri orizzonti, traevano un reale beneficio spirituale dalla partecipazione alla Messa secondo il Vetus Ordo o alla sua celebrazione.

  • Sulla “concorrenza sleale” tra le due forme… :

Può esserci competizione quando è lo stesso Cristo ad essere condiviso? Non ci può essere competizione in questo ambito della liturgia, ma solo servizio, servizio di Dio, servizio del popolo di Dio.
Questa “concorrenza sleale” esiste in molti luoghi della Chiesa: tra le diocesi, all’interno delle diocesi tra le parrocchie, tra le diocesi e alcune comunità di laici o religiosi… Il legame con la parrocchia per molti è spezzato. I cristiani scelgono il loro luogo di culto, il loro celebrante… Questo è un fatto che non si applica solo alla questione del Vetus Ordo. La domanda che sorge spontanea è: come gestire questa situazione? Dobbiamo vedere questo come una ricchezza o una povertà per la Chiesa?
Ciò che non è accettabile è etichettare la Forma Straordinaria come la “Vera Messa”. Ma come ben sapete, questo viene fatto soprattutto dai fedeli della Fraternità San Pio X.
D’altra parte, mi sembra che la Chiesa debba prendere atto del fatto che il Vetus Ordo risponde alle aspettative dei fedeli e dei sacerdoti e attira anche i non cristiani soprattutto per la sua sacralità. È riconosciuta e i sondaggi confermano che se fosse più diffusa, un maggior numero di fedeli la praticherebbe.
Durante una conferenza dedicata al Vetus Ordo, mi sono permesso di fare un’osservazione un po’ provocatoria: se il Vetus Ordo è nato dal lavoro dei sacerdoti che lo celebrano, è perché questi sacerdoti erano consapevoli di una mancanza nella vita della Chiesa e nella loro stessa fede. In compenso oggi fa impressione vedere, a cinquant’anni dall’attuazione della riforma liturgica, sacerdoti che si rivolgono al Vetus Ordo come se mancasse loro qualcosa nel Novus Ordo… Il vostro lavoro di liturgisti dovrebbe farvi fare un’analisi di questo. Prima di parlare di riconoscimento reciproco dei due riti, dovremmo parlare di conoscenza reciproca dei due riti. La Chiesa non può semplicemente accantonare un autentico tesoro perché lo ha dimenticato, perché non ne è consapevole o perché alcuni lo hanno caricaturato; questo tesoro, che rimane per i sacerdoti, per i fedeli, per i non cristiani anche il mezzo di un autentico cammino verso Cristo e talvolta semplicemente di un ritorno a Cristo. In relazione a questa situazione di concorrenza, è anche chiaro che la Chiesa ha il dovere di garantire che siano effettivamente Cristo e la Chiesa cattolica quelli che i fedeli incontreranno quando si recheranno in tale luogo. Dubito fortemente che la lotta contro la concorrenza sleale si concluda con la soppressione pura e semplice della celebrazione secondo il Vetus Ordo.
Sopprimere il concorrente sembra a molti la scelta di Traditionis Custodes nella sua rigida interpretazione. Sulla carta è semplice e radicale. Concorderete che al momento è difficile valutare le conseguenze che una tale applicazione del testo avrà, anche a breve termine. Come reagiranno i fedeli? Torneranno nelle loro parrocchie? Sceglieranno di partecipare a Messe virtuali, Messe clandestine? Si uniranno alla Fraternità San Pio X? Piuttosto che contrapporre Traditionis Custodes a Summorum Pontificum, sarebbe meglio ricomporli in un continuum. Questa prospettiva sarebbe anche un modo per consolare i fedeli disorientati, che interpretano Traditionis Custodes come un atto duro e severo che va contro quanto voluto da Benedetto XVI.

Summorum Pontificum sarebbe stata una recita per un certo periodo.
Traditionis Custodes sarebbe come il fischio del maestro di scuola per porre fine alla ricreazione, un richiamo deciso di Francesco a non fare della liturgia un canto di battaglia, un richiamo a lavorare per un’unità liturgica che risponda alle legittime aspettative di tutti i fedeli, che la Chiesa non può ignorare. Associato a un documento che apre il Novus Ordo agli arricchimenti del Vetus Ordo, Traditionis Custodes promuoverebbe questa conoscenza reciproca, questo cammino insieme verso un’unità liturgica che può essere raggiunta solo nella pace e nella fiducia.
Sono quindi d’accordo con lei quando scrive: la sfida della pace si sposta dai “ponti tra due forme rituali” ai ponti “tra i fedeli che usano l’unica forma comune”. Molte delle cose che lei descrive come “inalienabili” nel Vetus Ordo devono essere scoperte, introdotte o riconosciute nel Novus Ordo previsto dal Concilio Vaticano II.

  • La riforma della riforma nell’abbazia.

Lei parla della storia dell’abbazia e di una certa ostilità nei confronti del Vaticano II. Questa affermazione mi sorprende… Il Padre Abate Jean, mio ex predecessore, che ha vissuto il periodo del Concilio, amava dire che la situazione di crisi che la Chiesa ha attraversato e sta attraversando non si è verificata “a causa del Concilio, ma in occasione del Concilio”.
Esprimete il desiderio che l’abbazia “si dia gradualmente alla scoperta dei tesori liturgici del Novus Ordo e li condivida nell’esperienza monastica e nell’esperienza ecclesiale”. E così aiutare tutta la Chiesa a vivere la continuità dell’essenziale del depositum fidei (deposito della fede) nella nuova formulazione della sua presentazione”.
Questo lavoro va avanti da molto tempo… nel corso di una storia liturgica movimentata… con momenti belli come quello della mia benedizione abbaziale presieduta dal vescovo Armand Maillard, dove sacerdoti diocesani, religiosi e religiose hanno concelebrato nella Forma Straordinaria e sono usciti profondamente gratificati…
Dom Jean Roy, abate di Notre-Dame de Fontgombault dal 1962 al 1977, accolse il piccolo pacchetto di riforme dell’Ordo Missæ nel 1965. Non senza qualche perplessità, seguì il fermento che portò alla promulgazione del nuovo Ordo Missæ nel 1969, di cui percepì qualità e limiti. Il Novus Ordo è stato adottato alla fine del 1974 nell’abbazia, quando è diventato obbligatorio con l’approvazione della traduzione francese. L’abate raccomandò ai sacerdoti dell’abbazia di conservare nella celebrazione dei santi misteri le disposizioni di pietà, rispetto e senso del sacro che avevano acquisito alla scuola del messale tridentino.
In seguito alla lettera circolare Quattuor abhinc annos del 3 ottobre 1984, a partire dalla festa dell’Annunciazione del 1985, i sacerdoti del monastero, a condizione di richiederlo personalmente all’ordinario del luogo, hanno ricevuto il permesso di celebrare metà delle Messe della settimana secondo il messale tridentino. [È bene qui ricordare che la lettera Quattuor abhinc annos è lo speciale indulto che San Giovanni Paolo II fece emanare alla Sacra Congregazione per il Culto Divino, con il quale, a determinate condizioni, offriva la facoltà di riprendere l’uso del Messale Romano promulgato da San Giovanni XXIII. ndr]

Infine, dom Antoine Forgeot, successore del padre abate Jean Roy, ha ottenuto dalla Commissione Ecclesia Dei il rescritto del 22 febbraio 1989 che autorizza l’uso del Messale del 1962. Il monastero è stato fortemente incoraggiato dalla Commissione ad adottare tutto ciò che lo avvicinasse al Novus Ordo. L’abbazia ha mantenuto il nuovo calendario per il Santorale, ha adottato alcuni nuovi prefazi, una preghiera universale nelle domeniche e nelle feste, il per Ipsum cantato, il Pater cantato dai monaci… La Messa è concelebrata nelle solennità più importanti o in occasioni speciali… Queste pratiche si riveleranno in linea con il pensiero del cardinale Ratzinger. Lo ha testimoniato alle Giornate liturgiche di Fontgombault nel 2001. Una questione più personale, nel 2011, poco dopo la mia benedizione abbaziale, durante una visita a Roma alla presenza del Padre Abate Antoine, Papa Benedetto mi ha invitato a “rimanere fedele all’eredità del caro Padre Abate”... Che bella conferma per l’opera del Padre Abate Antoine. Volentieri, la invito a venire a Fontgombault per scoprire come si vive la liturgia e l’arricchimento reciproco dei due messali.

Tutto questo mi porta ad affermare che è l’applicazione, parziale o partigiana, di Summorum Pontificum, da una parte o dall’altra che ha portato alla situazione attuale… ci sarebbe stata la possibilità di fare altrimenti. Lei parla del mio passato e in effetti questa conoscenza reciproca e pacificata dei due ordini risale a molto tempo fa e la devo ai miei genitori. All’età di 14 anni mi è stata data l’opportunità di scoprire il Vetus Ordo, ma non solo. Fino al mio ingresso in monastero, come organista, ho servito la liturgia nelle Messe celebrate secondo i due riti. Questo fa parte di una libertà che non è comune nella Chiesa. Questa libertà mi sembra essenziale per conoscere e accogliere l’altro per quello che è, con le sue bellezze ma anche con le sue povertà e lentezze.
Ora, devo anche confessarvi che Cristo morto, risorto, condiviso, incontrato nel cuore della liturgia mi viene dalla celebrazione del messale del ’62 e che la mia celebrazione del ’65, ’69, ne è impregnata. Molti giovani sacerdoti che imparano la celebrazione della Messa del ’62 in abbazia, quando di solito non la celebrano nella loro parrocchia, fanno la stessa esperienza.

Conclusione: lavorare per il futuro

Per essere chiari, credo che sia utopico nel campo della liturgia cercare di costruire ponti dicendo: “Non c’è niente di buono in casa vostra. Venite a casa mia, così potremo andare d’accordo” Cosa fare allora? Tornare a un unico rito comune e ordinario? Questo era anche il pensiero di Papa Benedetto.
Il cardinale Ratzinger aveva parlato al professor Barth di un rito “nella tradizione del rito antico”. In particolare, c’è l’ostacolo del latino e il lavoro svolto anche sul lezionario. D’altra parte, l’introduzione di elementi del Vetus Ordo nel Novus Ordo soddisferebbe le aspettative di molti, fornendo elementi per una possibile risacralizzazione in modo più percepibile, pur rispettando la celebrazione spoglia che si addice ad altri.
Se Papa Francesco dovesse andare in questa direzione, molto potrebbe essere fatto nell’unica forma comune che avrebbe una modalità di celebrazione ordinaria o solenne. Penso in particolare alla possibilità di utilizzare l’offertorio del Vetus Ordo, di aggiungere gesti che ricentrino il celebrante e i fedeli su ciò che si sta compiendo. Perché non rendere possibile il grande silenzio del canone, che è come l’iconostasi del rito romano?
Lei parla di affetto e di norme, nel suo testo… Per me la liturgia non è mai stata il luogo delle norme, ma prima di tutto il luogo dell’affetto. Se la Chiesa promulga una norma liturgica, questa norma deriva dall'”affetto” della Chiesa per i suoi figli. In questo senso, la liturgia risponde alle esigenze del popolo cristiano. Il pastore non sceglie le sue pecore o i suoi sacerdoti… li riceve. A questo proposito, ricordo le battute di Francesco all’inizio delle udienze dedicate ai Dieci Comandamenti… non comandamenti ma parole in senso ebraico, parole d’amore.
“La questione non può essere risolta “né con ‘decreti dall’alto’ né con ‘populismo dal basso'”. Questo è vero. Francesco ha parlato molto del poliedro… Il primo ponte da costruire è nel cuore, dove dobbiamo stabilire un ponte con l’altro, un ponte con ciò che vive, con ciò che di buono e bello c’è in lui… Questo è ciò che facciamo in questi scambi.
Francesco ci ricorda anche che il tempo è superiore allo spazio… Ha ripetutamente invitato i religiosi alla continuità e alla creatività nell’accoglienza e nell’attuazione del carisma dei loro istituti. Questo orientamento vale anche nel campo della liturgia: Nova et vetera… In questo riprende l’idea cara a Papa Benedetto di un rinnovamento nella continuità che, alla fine, si fonda sulla roccia che è Cristo, capo del corpo che è la Chiesa. Non si tratta di invitare la Chiesa a rompere con il suo passato, ma di approfittare di tutto per un rinnovamento missionario.
Accogliete queste parole nello spirito con cui sono state scritte, uno spirito di pace, uno spirito di umile servizio alla Chiesa, a tutta la Chiesa, e che Dio vi benedica.

Lettera del 02 agosto 2021

AYUDA SILERE NON POSSUM

 Testo della seconda lettera di Andrea Grillo al Rev.mo Padre Abate Dom Jean Pateau, OSB

Caro Padre Abate,

ho letto con molto piacere la sua risposta alle mie considerazioni che avevo dedicato alla sua precedente intervista. Mi pare che, nella diversità di itinerari con cui valutiamo con partecipe accuratezza la “questione liturgica” come problema decisivo per la Chiesa del presente e del futuro, emergano alcuni profili su cui è necessario gettare una luce di chiarezza pienamente convincente. Esamino perciò le sue tre affermazioni-chiave e le sottopongo ad un esame sincero, riconoscendo in pieno la buona intenzione che guida la sua sollecitudine, ma segnalando in maniera altrettanto schietta dove io trovo i problemi più grandi della sua rispettabile impostazione.

a) Summorum Pontificum e la finzione delle “due forme” del rito romano

Lei identifica molto bene la mia fondamentale difficoltà. Non vi sono due forme del rito romano, ma le resistenze alla riforma liturgica (pre-conciliare e conciliare) hanno sviluppato una argomentazione obiettivamente “negazionista” rispetto alla riforma. Il fatto che papa Benedetto XVI abbia assunto questa prospettiva di lettura non la rende vera. Le cose storte restano storte, anche quando vengano assunte da Vescovi e da Papi. Per capirlo bene dobbiamo chiederci: quando è nata questa “argomentazione”? Lei cita il Card. Lustiger e il Card. Ratzinger, ma siamo già negli anni 2000. No, la argomentazione è nata con la più antica delle riforme più recenti: ossia con la “riforma della Veglia Pasquale” voluta da Pio XII e proposta “ad experimentum” nel 1951 a tutta la Chiesa. In quella occasione, nelle valutazioni che i Vescovi di tutto il mondo inviarono a Roma, spiccava la reazione dell’Arcivescovo Giuseppe Siri, di Genova, che proponeva “che la riforma della Veglia Pasquale” riguardasse chi voleva aderirvi, mentre chi non volesse potesse restare libero di seguire il “Vetus ordo”. Già 70 anni fa apparve questa “opzione” che, se assunta, avrebbe svuotato di senso la riforma di allora. La stessa cosa, 15 anni dopo, fu proposta da Marcel Lefebvre, subito dopo il Concilio, chiedendo di poter continuare a celebrare con il VO, pur avendo la Chiesa cattolica prodotto una “riforma generale” di tutta la liturgia. Ecco, ciò che dobbiamo imparare è che il “meccanismo riflessivo” che pretenderebbe che siano vigenti contemporaneamente due riti, sia quello nuovo sia quello vecchio, è nato per contrastare in modo radicale la riforma liturgica. E tale rimane anche in SP, nonostante le buone intenzioni dichiarate. Per questo Francesco, per poter restare fedele al Concilio Vaticano II, non poteva far altro che abrogare una logica “incerta e confusa” sulla riforma liturgica. L’unico rito vigente è quello elaborato dopo il Concilio, su indicazioni chiare del Concilio stesso. Non esiste altro rito: esiste solo la “forma precedente”, che per i suoi limiti gravi è stata rivista e rimodulata. Su questo punto non esiste alcuno spazio di mediazione possibile.

b) Non esiste concorrenza, esiste discontinuità e continuità

La forma vigente del rito romano assume, in sé, la discontinuità e la continuità. Come è ovvio, come accade in tutti i fatti storici, non vi è una successione di “male” e di “bene”. Potremmo dire che nel VO erano già presenti elementi fondamentali del NO, mentre nel NO sono portati alla luce dimensioni che il VO sviluppava in modo diverso. Ma non esiste “concorrenza”, perché lo sviluppo della tradizione non permette di tenere, contemporaneamente, la forma da modificare insieme alla forma che la modifica. Solo per breve periodo, e senza continuità, è possibile accettare un “interregno”: così pensava Paolo VI, così Von Balthasar, così lo stesso Giuseppe Siri. Ma questo è una conseguenza di tutti i processi di riforma generale. Il “rito straordinario” è stato, perciò, quella finzione giuridica che ha, di fatto, creato una nuova confusione nella Chiesa per 14 anni. Come se si fosse potuto “restare cattolici” ignorando il Concilio Vaticano II! Questa ipotesi è del tutto fittizia ed è stata resa possibile da un pasticcio giuridico che la Commissione Ecclesia Dei inutilmente ha cercato di mediare ed ha solo peggiorato, fino al paradosso di un superamento dello stesso messale del 1962. La lacerazione ecclesiale è inevitabile se è possibile celebrare la medesima eucaristia con un rito e con il rito che ha voluto correggere quel rito. Qui occorreva, da parte del papa, una parola chiara, che è venuta  autorevolmente con TC, che ristabilisce il principio antico e moderno, secondo cui esiste un unico “campo di lavoro” – ossia l’unico rito romano vigente – nel quale poter elaborare con cura tutta la tradizione celebrativa.

c) Nessuna “riforma della riforma”, ma la recezione dell’unica riforma

In terzo luogo, è evidente che una “minaccia alla recezione del Concilio” venga da tutti i luoghi che non accettano di celebrare l’eucaristia e tutti i sacramenti nell’unica forma vigente. Capisco bene che tra coloro che “hanno fatto uso di SP” ci siano differenze anche assai significative. Che non tutti vogliano essere “la vera Chiesa”. Ma nel momento in cui celebri con un rito che non è vigente, assumi un approccio alla Chiesa che inclina inevitabilmente allo scisma. La parola di chiarezza di TC ristabilisce non solo il principio dell’unica lex orandi, e della inesistenza di una “concorrenza tra forme rituali diverse”, ma anche la unificazione della “riforma” nell’unica forma vigente. Questo implica una serie di conseguenze assai rilevanti, anche per la prospettiva che lei, Dom Pateau, giustamente considera importante. Lavoriamo, insieme, su un unico tavolo, limpidamente conciliare, ad una buona recezione della riforma liturgica, alla valorizzazione di una “ars celebrandi” che coinvolga radicalmente la assemblea, che generi ministeri, che coinvolga uomini e donne, che rinnovi il canto, l’arte, i colori, i silenzi e gli spazi. La Chiesa non è un museo da consevare, ma un giardino da far fiorire.

Un’ultima cosa, importantissima. Il Concilio Vaticano II non è stato né causa di crisi, né occasione di crisi, ma inizio solenne per la uscita da una crisi che era presente, in Europa, da più di un secolo. Rosmini in Italia, Guéranger in Francia, e più tardi, Festugière in Belgio lamentavano già ai loro tempi la inadeguatezza del celebrare cattolico. Le forme di resistenza alla riforma liturgica, che si sono espresse nei principi distorti fatti propri anche da Summorum Pontificum, non saranno superate soltanto da TC, ma solo da una ripresa di slancio di quel Movimento Liturgico che ha preparato il Concilio, ma senza il quale il Concilio non  saprà ispirare una vera risposta alla “questione liturgica”. Su questo, io credo, è possibile che tutti coloro che hanno a cuore il cammino ecclesiale comune, che non vogliono creare chiese parallele, chiese pure, e che non restano fissati a forme rituali obiettivamente superate, sapranno collaborare ad una migliore qualificazione della liturgia cattolica. Di questo lavoro comune, serenamente ispirato dal Concilio Vaticano II e dalla riforma che ne è scaturita, potremo essere in futuro convinti sostenitori, nonostante i percorsi tanto diversi e le sensibilità così difformi.

Con un cordiale saluto

Lettera del 03 agosto 2021 alla quale Dom Pateau ha scelto di non replicare nemmeno.