Many priests ask to return to the contemplative life. Why? We reflect.

 🇬🇧Many priests ask to return to the contemplative life. Why? We reflect

Negli ultimi tempi, sono numerose le notizie che giungono da tutto il mondo in merito a presbiteri, anche giovani, che scelgono di abbandonare la vita parrocchiale e ritirarsi ad una vita di preghiera. Altri, chiedono di entrare in ordini religiosi. Altri ancora, invece, lasciano il ministero dopo pochi anni, se non mesi. Queste scelte non devono essere recepite, come del resto tentano di fare i media nel comunicarle, come delle sconfitte ma debbono farci riflettere.

Molto spesso, anche fra presbiteri, si sente parlare del seminario come un trauma vissuto. Una parte di episcopato, chiaramente intriso di ideologia, risponde a questo rifiuto aumentando gli anni di formazione. Scelta che, chiaramente, non risolve assolutamente nulla. Ci ritroviamo, allora, con seminari vuoti oppure pieni di persone che accedono a 40-50 anni. Giovani seminaristi che sono costretti a fare dieci anni di seminario solo perché il rettore o il vescovo di turno non ammettono che il candidato sia diverso da loro. Seminaristi “tradizionali”, vengono inviati in realtà praticamente protestanti solo per “rieducarli”. Anche nella formazione presbiterale, infatti, nella Chiesa abbiamo dato spazio ai personalismi.

Se un giovane ha avuto un parroco “tradizionale”, è la fine. Arriva in seminario e deve affrontare la rieducazione.

Di personalismi, poi, bisogna parlare quando ci si trova di fronte a formatori o vescovi che scelgono di non ammettere agli ordini un candidato. Molto spesso accade che questi, probabilmente convinti di essere gli unici interpreti dello Spirito Santo, perseguitino quest’ultimo ovunque vada facendo arrivare, appunto, il proprio parere negativo. A che pro tutto questo? Se non per assecondare il proprio ego, tale atteggiamento non è certo ecclesiale. Le motivazioni per cui un giovane può non essere adatto, in una determinata realtà sono moltissime. Può essere un problema territoriale, può essere la comunità stessa che non è quella giusta, vi può essere un problema di maturità del candidato e, da non tralasciare, una incapacità da parte del formatore. Se questo, poi, non sarà adatto certamente troverà più persone che confermeranno questa cosa, ma perché perseguitarlo?

Si tratta di sintomi di una patologia, praticamente tutti afferiscono ad un problema di fondo: l’incapacità di servire. Chi è chiamato a compiere un servizio, dentro la Chiesa, deve essere realmente convinto del fatto che, anche senza di lui/lei, il Signore potrebbe fare bene, se non meglio. Se un giovane si presenta alla porta del seminario diocesano e io, dopo averlo conosciuto ritengo che quella non sia la sua vocazione, devo accettare, senza rancore alcuno, che quest’ultimo possa compiere un cammino differente con un altro formatore ed in un’altra realtà. Non è certo la fine del mondo.

Allo stesso tempo, e qui veniamo al punto, dobbiamo iniziare a prendere sul serio la formazione sia dei presbiteri che dei religiosi.

Seminario: luogo della formazione?

Troppo spesso, chi si trova all’interno della struttura seminariale come formatore pensa di ricevere un pezzo di DAS da modellare. Si incontrano così, quei vescovi o rettori che impongono tessere per accedere al seminario, divieti di uscita, l’assoluta impossibilità di accedere nelle camere dei confratelli e quant’altro. I rettori si trasformano, così, in maestri da asilo nido. Chi accede al seminario, soprattutto oggi che i seminari minori sono visti come qualcosa da cui fuggire, è adulto e formato. Certo, un diciannovenne non è del tutto maturo ma certamente possiamo ritenere che abbia imparato le basi del “vivere comune” e abbia frequentato la scuola dell’infanzia.

Il compito del Maestro dei novizi / del rettore, quindi, deve essere quello di “formare” ma non fotocopiare soggetti uguali a sé. La formazione, poi, non può essere improntata su un controllo ma su un cammino da compiere.Solo nella libertà e nella fraternità avremo candidati liberi e maturi. Altrimenti, finito il tempo del controllo, iniziano i guai.

Anche in merito ai tempi, abbiamo visto una evoluzione terribile. Più anni di seminario vengono fatti, meglio è. Sostanzialmente lo scopo sembra quello di portare le persone allo sfinimento. I nostri seminaristi fanno più anni di formazione dei medici all’università. A che pro? Non ritengo che la soluzione sia l’eliminazione della struttura seminariale ma ritengo che, oggi, sia divenuta insufficiente.

Vocazione: religiosa, monastica o secolare?

Un giovane “chiamato” alla vita secolare oggi non compie alcun cammino differente da quello di un “chiamato” alla vita religiosa.

Seppur ci sono vescovi che hanno un vero e proprio tarlo per il “vivere insieme”, questo stile di vita non si addice al prete secolare. La fraternità del presbiterio è cosa ben diversa dalla fraternità religiosa. Perché un giovane dovrebbe entrare nel clero diocesano e non in quello di un ordine religioso? La formazione in seminario è praticamente uguale a quella della casa religiosa: vita comune, servizi comuni, liturgia in comune. La vita futura, soprattutto nell’Urbe, è comunque vita in comune.

Forse, quindi, è necessario tornare a ciò che lo stesso Concilio Vaticano II chiedeva e riscoprire le radici dei carismi. Abbiamo moltissimi ordini religiosi che hanno dei carismi molto belli. Penso, ad esempio, ai Chierici passionisti, agli oratoriani, ai domenicani, ecc… Ognuno di questi ordini ha un carisma peculiare e questo deve esprimersi nella vita quotidiana. Non solo l’abito, che purtroppo molti ordini hanno scelto di abbandonare (non questi citati, per fortuna), ma anche nella spiritualità, nell’evangelizzazione, ecc…

Quando un giovane si presenta in direzione spirituale o in parrocchia e riferisce di sentire una particolare chiamata, dobbiamo evitare di “pubblicizzare” la “nostra realtà”. Se sono un secolare, non devo “tirare l’acqua al mio mulino”, ecco. Dobbiamo fornire tutti gli strumenti perché quella persona possa scegliere, in libertà, quale realtà sente più vicina alla sua sensibilità.

In Lombardia ci sono dei seminari che puntano tutto “sull’oratorio”. Senza oratorio, la vita della Chiesa è finita. Nel momento in cui c’è un candidato che non è “in sintonia” con l’oratorio, è finita. Si torna a casa. Eppure, il sacerdote non è chiamato a saltellare avanti e indietro per i campi da calcio o a tenere la cassa del bar dell’oratorio. Queste sono quelle cose che possono fare i laici. Il presbitero ha un altro compito ed è quello di portare Dio in mezzo a questi giovani. La valutazione non può essere fatta su questo. Inoltre, se il formatore nota che, forse, una vita monastica o religiosa è più consona, deve parlarne con il ragazzo e lasciare che questo verifichi. Troppo spesso abbiamo lasciato “scappare” vocazioni, solo perché non ci siamo spesi abbastanza. Il rischio è quello di avere, poi, un prete o un laico scontento.

Soprattutto dopo il Concilio Vaticano II abbiamo visto questi ordini religiosi e monastici che ordinavano chiunque entrasse in monastero. La figura del “fratello converso/laico” è quasi sparita. Eppure, il Signore ha suscitato anche queste vocazioni e non ha smesso di farlo. Semplicemente abbiamo clericalizzato anche ciò che non era da clericalizzare. Pensando, peraltro, che chi non viene ordinato presbitero non è il “top”. Questo sì, è una deriva del clericalismo.

In più occasioni mi è capitato di incontrare presbiteri che hanno chiesto al vescovo un periodo di preghiera e di ritiro in monastero. Un anno, anche. La reazione del loro vescovo è stata, a dir poco, terrificante. Proprio come degli “amministratori” hanno subito scoraggiato il prete e hanno detto: “Eh ma io perdo un prete, la parrocchia resta vuota”. Certo, nessuno vuole svilire questo aspetto “organizzativo” ma il pastore ha il compito di preoccuparsi della condizione spirituale e psicologica del proprio presbitero. Meglio una Chiesa vuota di un prete in crisi. Se il sacerdote ha bisogno di un tempo di riposo e di preghiera, il Signore saprà certamente illuminare quella stanchezza e renderà più forte quella vocazione. Ci sono due questioni che dobbiamo affrontare: in primis, oggi i preti sono chiamati a fare troppe cose che non c’entrano nulla con il loro ministero; in secundis, stiamo vivendo un periodo storico in cui anche il Papa non incoraggia chi vive il ministero ordinato.

Come rispondere a queste esigenze? Forse è il caso di tornare alla base, tornare al tabernacolo. Anche il Papa lo ha detto alla Comunità del “St. Mary Seminary” della Diocesi di Cleveland, proprio ieri. Quanti frutti ha portato l’adorazione eucaristica perpetua in quelle realtà che l’hanno promossa.

Altri vescovi, poi, si sono ritrovati ad affrontare sacerdoti che hanno chiesto, espressamente, di andare in monastero o vivere come eremiti in località tranquille. Dedicarsi completamente alla preghiera. Anche qui, chiaramente c’è stato il terrore dei vescovi. Un prete che si ritira in preghiera, però, non è il dramma ma è una ricchezza. Lui, chiamato a questo tipo di dono e di contemplazione particolare, potrà intercedere perché in quella stessa Chiesa particolare possano suscitare germi di vocazione.

Risposta sincera, no personalismi

Solo se rispondiamo serenamente, ed aiutiamo a rispondere, alla Chiamata del Signore, non ci mancherà mai ciò di cui abbiamo bisogno. La risposta, poi, alla mancanza delle vocazioni non è quella di impegnare i laici ma quella di pregare. I laici hanno i loro compiti e sono parte della Chiesa e svolgono i compiti a loro affidati, ma come “ottenere” presbiteri santi lo sappiamo benissimo. Il Signore ce lo ha detto: “Rogate ergo Dominum messis, ut mittat operarios in messem suam”. Il Signore non farà mancare ciò che chiediamo con cuore sincero.

Non ho soluzioni in merito alla formazione del prete secolare, anzi. Forse, però, sarebbe necessario dividere completamente la settimana fra parrocchia e struttura seminariale. Senza dimenticare che, purtroppo, poi dipenderà molto da “dove e con chi capiti”.

La liturgia delle ore in seminario, ad esempio, è certamente una ricchezza ma si rischia di legare il candidato alla comunità. Tolta la comunità, dopo la sacra ordinazione, quella liturgia delle ore diverrà superflua. Oppure, i più pii reciteranno il breviario o al mattino o alla sera, tutto insieme. Eppure, le ore hanno un significato importante che serve proprio a ricordare al sacerdote che non è un amministratore ma deve sempre tornare al Signore.

Il periodo della formazione deve essere anche un periodo di interrogazione: cosa vuole il Signore da me? Purtroppo, oggi assistiamo ad una sorta di isteria. Per alcune questioni, vieni considerato come un presbitero già ordinato; per altre, invece, guai a sentirti troppo “clericale”. Quindi: guai ad esperienze relazionali ma guai a mettere la veste talare. Il senso di queste scelte, qualcuno lo spiegherà mai? Gli allievi delle forze militari non mettono la divisa? Hanno traumi per questo? Se poi lasciano, muoiono perché hanno messo la divisa? Mah.

Forse la crisi che stiamo vivendo è frutto di questa incapacità di seguire una vocazione. Spesso dimentichiamo che vi è anche una vocazione nella vocazione. Un presbitero che, dopo dieci anni di ministero attivo, si sente chiamato alla vita contemplativa non è fallito. Anzi.

Non dimentichiamo che le realtà che vivono il loro carisma secondo lo stile dei fondatori, qualunque esse siano, non hanno alcun problema di vocazione o “sopravvivenza”. Seppur qualcuno vuole demonizzarle, quelle sono le più rigogliose. Forse, allora, è il caso di tornare davvero al tabernacolo, all’adorazione eucaristica e fuggire le ideologie, perché la vocazione è cosa seria e vi è in gioco la vita delle persone. Anche qui, sennò, si rischia di abusare delle coscienze.

R.I.

Silere non possum

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